di Davide Rondoni
Con “Pietra lavica” (Aragno) Francesco Iannone si conferma una voce certa della poesia nuova italiana. Lo fa con un libro che prosegue i precedenti e che appare denso, straniante, oscuro a dispetto di tanta chiarità di dettato e nutrito da molte delle più accese linfe della poesia precedente.
Un poeta che paragona la conversione a Cristo a un cinghiale o che scrive versi come: “Mi sollevai sulle ginocchia del cammello/ l’arsura mi avvizziva i pomodori nel cesto” può esser difficilmente ascritto – come tenta di fare nella postfazione al volume la pur brava poetessa Giovanna Rosadini – “a linee di ricerca spirituale laica come quelle praticate da Chandra Candiani e Mariangela Gualtieri, anche loro campionesse di ‘stile semplice'”. Credo che la distinzione della poesia in base a una presunta “semplicità” sia oggi fuorviante. Del resto, basterebbero le citazioni in esergo ad alcune poesie tratte da Rebora, dalla Rosselli e da Testori ad avvisare il lettore e a mettere in guardia da qualsiasi riduzione della voce di Iannone a qualcosa di “semplice”. Il pregio principale di Iannone sta, a mio avviso, in una indecente libertà, caratteristica che ravvisai fin dalle sue prime prove inedite che ebbi la ventura di leggere e che mi convinse di trovarmi dinanzi a una voce di vera poesia. L’impasto di questa voce, infatti, è nutrito dalle più varie esperienze percettive ed esistenziali, dalla osservazione serena e inquieta dei figli alla oscurità di un amore tigre che “stringe il laccio/ intorno al collo”, dal repertorio contadino alla sapienza biblica, dai serrati vis-à-vis con se stesso alla febbrile ricezione di segnali minimi del vivente (animaletti, scaglie di sapone, mucchietti di terra…).
Un impasto dunque dove la vita nel suo interrogarsi può esprimersi e cercarsi. Da qui la libertà di una esperienza di poesia che – come avverte all’inizio il poeta – chiede a stessa “più carità, più carità/ più obbedire più dire/sono tuo amore”. La libertà del lottatore, non del saggio. In un’epoca dove spesso la poesia viene spacciata per sistemazione estetica o addirittura ironica di un mondo tragico, la voce di Iannone ci porta invece nel vivo di una lotta. Personale e perciò stesso generale. La lotta per il significato e per l’amore fertile. In questo, diversamente da molte voci di coetanei venuti con lui alla piccola sgarrupata ribalta della poesia, Iannone offre, similmente a Tommaso Di Dio, a Simone Di Biasio, a Matteo Greco, a Valerio Grutt e a Pietro Cagni e ai leggermente più “anziani” Valentino Fossati, Francesca Serragnoli e Franca Mancinelli, per fare alcuni nomi, una voce incandescente di lottatore nelle profondità magmatiche dell’esistenza, più che il disincantato ricamo del distillatore di saggezze in pensierini o il malinconico elegiaco estetismo consolatorio del letterato. Non a caso, citando Machado e Rebora in apertura, e avvicinando nel suo lavoro testi di chiarità e di straniamento, Iannone mostra di operare tra incanto e lotta, tra meraviglia e dramma, essendo la vita sinceramente presa tessuta da entrambe le irriducibili polarità. L’indecente libertà di dire dunque come stanno le cose con una tensione che le onora e le soffre, che le ama e patisce.
Mi disse una volta Testori dopo che gli citai la Campo che parlava del poeta come di una specie di entomologo capace di grande attenzione: «non basta osservare la realtà, occorre soffrirla». Aveva ragione. Solo dal patimento di una lotta interiore all’esistenza e all’uomo il poiein non si accontenta di offrire intelligente psicologia o secondaria sociologia. Arrivando a essere, come in questo caso, una voce che lega al movimento drammatico della vita, alla sua controversia profonda, a quella che San Paolo chiamava la “doglia”. Così da comunicare conoscenza come co-nascenza e non come scettico disincanto, magari mascherato da ironia o da letteratura.