Brodskij, gran poeta pericoloso per la poesia

di Davide Rondoni

 

A proposito di "Conversazioni con Iosif Brodskij", Adelphi

I

 
Questo articolo avrebbe potuto chiamarsi "perché sono distante da Brodskij" ma sarebbe come - per la geografia poetica - se Forlimpopoli dichiarasse la sua distanza da Roma. L'esiguo coro di sparuti lettori intonerebbe un "e chi se ne frega" più che giustificato. Ma si sarebbe potuto anche chiamare, in modo più lungo e forse più chiaro: "Una diversa povertà. L'inessenzialità della poesia nella sua attuale gloria. A proposito di Conversazioni con I. Brodskij". Il fatto è che mi trovo come quando uno strano disagio entra in gioco con una persona. La quale beninteso non ti ha fatto nulla di male e non hai motivo di nutrire nessun risentimento. Ma c'è una punta di disagio. O meglio qualcosa si allarga da qualche parte, forse nella pancia o una zona della mente, una sorta di lago, una disagio con quella persona. E si potrebbe restare così a lungo, senza preoccuparsi più di tanto. Anche se quella persona è importante, che ne so, un pezzo grosso del lavoro, un'amica cara di tua moglie o di un poeta amico. Poi pensi: basta non incontrarlo spesso... Insomma, ok, poteva andare così avanti per anni, ma di fronte a questo libro ho spostato il bicchiere di lato e ho detto all'intelligentissimo fantasma che mi parlava, regalandomi un sacco di perle di saggezza: beh, ora affrontiamo la questione. E quando si fa così, quando "si bracca il disagio" come diceva un mio amico invece di evitarlo, beh, si scoprono sempre cose e persone interessanti nelle persone che abbiamo davanti. Ma occorre chiarire l'aria, scacciare con la mano i convenevoli e le cose non dette. E insomma in queste pagine mi pare di avvertire qualcosa che conta molto di più di distanze tra singoli poeti (o meglio tra grandi stelle del firmamento e oscuri astri).

II

 
In questo libro denso e illuminante ho trovato molte cose che mi hanno fatto sussultare. Del tipo: finalmente qualcuno che lo dice! Come quando IB afferma che il polacco Cyprian Kamil Norwid è poeta che si avvicina al valore di un Baudelaire. O quando sornione IB irride la tendenza americana all'happening dovuta al fatto che spesso molti individui, specie in certe società, vivono come se niente accedesse. E dunque finiscono per chiamare tutto "evento", anche la cosa più trita e senza sorprese.

Debbo forse la mia vocazione poetica anche all'ascolto di una lettura in polacco di alcune poesie di Norwid accompagnate da musica di Chopin al pianoforte. Ero a Roma con mia madre, ero un ragazzetto, non so bene perché. Non capii una parola di quelle poesie di Norwid, le lessi più avanti. Ma qualcosa si accese allora.

Insieme a descrizioni e scorci - mirabili quelli dedicati all'Italia - che mi fanno dire: cavolo, bravo IB, trovo in queste conversazioni, raccolte lungo molti anni, una gran quantità di segni di una intelligenza cruda e invidiabile. Quest'uomo è capace di procedere per scarti e di illuminare in modo inaspettato vicende legate alla scrittura e alla cultura. È una miniera. Una quantità di notizie del profondo, di visioni senza retorica, di sincera passione per un gran numero di poeti. Si avverte in lui, nel suo rispondere a diversi interlocutori, un segno di uno stato di "lentezza" precedente che sostiene e innerva il suo dire poetico, al modo di altri russi, penso ad Arsenij Tarkovskij. Così, provenendo da quella lentezza, e recandone il segno, i pensieri nel flusso, come le figure nei versi, si stagliano in una speciale nettezza. Quasi come avviene per le icone. W.H. Auden, come ricorda La Porta, notava che IB ha lo strano potere di far emergere gli oggetti più consueti come "segni sacramentali". E ciò non avviene solo nelle poesie legate più esplicitamente a un tema religioso o biblico. Chi ha letto Pavel Florenskij potrà seguire da qui molte suggestioni. Nelle prose su Venezia, come in molti versi, la bellezza è un riposo dello sguardo, secondo la definizione dello stesso poeta. E la poesia pare cercare questo riposo in dimensioni non apparenti, in oltranze, in miracoli senza aura. Testi che portano con sé tale dimensione di lenta esercitazione dello sguardo, probabilmente molte sigarette fumate e tempi dedicati alla pura visione delle cose.

III

 
Il fatto che IB sia fissato con Properzio o che sogni di compilare una edizione di Leonida di Taranto oppure di starsene finalmente solo a scrivere a Venezia, fumando e buttando cicche nel canale, indica più che una vena di snobismo, o di coltissima spezzatura, una certa propensione a non dare nulla per scontato.

Nulla eccetto che la vita sia tragica. Nulla eccetto il destino.

Ecco cosa ho notato crescere in queste pagine. Lo ripete più volte, anche contraddicendosi tra l'inizio e la fine. Tragedia e catastrofe, ripete, sono il destino umano. Tutto si va solo devastando. Certo ci sono eccezioni lodevoli, ma la strada è segnata, pensa e dice e ridice IB.

Ecco l'ombra, ciò che rischia di rendere inessenziale la poesia. E non intendo inessenziale nel senso di inutile. Quello lo è sempre stata, se intendiamo qualcosa da fissare in utilità misurabili. No, intendo la uscita della poesia dalle cose che creano la civiltà di un luogo e di una tradizione, o semplicemente dalle cose che ri-creano profondamente la vita di un tizio. Se infatti la parola definitiva sulla vita (mia o altrui) è già pronunciata, a che scopo interessarsi di poesia? Come consolazione? Come cronaca complicata?

Quando sento sentenziare qualcosa sulla vita, sia qualcuno che afferma si tratti di una tragedia, come in questo caso, oppure che sia una specie di passeggiata nella felicità, ecco, sento che la poesia si ritira altrove. E non perché non sia lecito pensare queste cose. Un mucchio di uomini la pensano in uno di questi due modi. O in infinite varianti. E molte poesie sono piene di sentenze. Eppure. Continuo a credere che la poesia sia una buona compagna per un viaggio che non sai già come vada a finire. Una tizia dal cuore avventuroso, insomma. Una che se gli dici: guarda, è già tutto organizzato, oh sì, non mancheranno piacevoli sorprese, qualche deviazione da brivido, però, sai, sappiamo già come finisce, ecco, ti guarda storto molla la valigia e se ne va.

IB e tutti i miei lettori potrebbero obiettare subito che in Dante come in molti poeti grandissimi del Novecento - ad esempio, la Cvetaeva così amata da lui o in Celan - l'esistenza di un destino sentito come segnato, perfino come spada che entra nella carne e nella mente, oppure un cosmo ordinato e movimentato come nel caso di Dante, non hanno impedito che nascesse immensa poesia. Molti poeti nelle loro opere hanno elaborato una visione del mondo abbastanza chiara. Ma il punto infatti non è questo. Le affermazioni di visione del mondo in un'opera di poesia sono appunto affermazioni poetiche. Non intendo con ciò che siano romanticherie. Ma sono, soprattutto per noi moderni e contemporanei, materia stessa del pensiero poetante, ovvero coinvolte come le altre parole in un viaggio che esse non determinano, non dominano. Molta forza di quella poesia, e la loro stessa possibilità di sopravvivenza nei confronti di lettori che hanno - per convinzione o epoca - visioni completamente differenti, sono dovute al fatto che la poesia appunto supera e dà vita aperta a quelle affermazioni. Ma si tratta appunto, di cose che avvengono allo scrittore e al lettore nella esperienza del testo. Sono materia della poesia.        
Non è necessario andare d'accordo con i poeti mentre scrivono le loro poesie. Non occorre essere cristiani - e nemmeno ignorare cosa sia la fede - per leggere e gustare il portento intimo e visionario di Dante. Il consenso, come di solito si intende, è inutile alla poesia. Non lo si cerca. Non occorre essere degli sgangherati antimoderni per appassionarsi a Rimbaud. Ma appunto si tratta del testo poetico e della sua forza fluviale di portare tutto, dalla virgola alla intonazione della voce, dalla affermazione che la vita è male a quella per cui la vita è sogno - tutto al livello della conoscenza in corso. Della conoscenza avventurosa. A questo livello di avventura il lettore dà il proprio consenso profondo, anche quando è in completo disaccordo con la visione dell'autore. Si tratta di quel modo di conoscenza che lo stesso IB vede come sintesi tra occidentale e orientale, di mente e cuore. E che genialmente P. Claudel, facendo leva sul francese indicava come connaitre/co-nascere.

Ma se usciamo dal farsi del testo, da quell'aria rubata, se lasciamo il sentiero di boschi e radure, e sentiamo qualcuno parlare di letteratura così, come di uno che "sa già" la destinazione del vivente cosa sia, che si muove in un orizzonte già definito e destinato, allora è inevitabile: la poesia diviene irrimediabilmente superflua. Una bellezza sganciata dal destino come problema. Se problema lo abbiamo già risolto - la vita è tragedia - ok, godiamoci lo spettacolo, se possiamo. Con una nota di elegia inevitabile nel filo degli occhi o nel bicchiere di whiskey. Intanto la poesia diviene una buona zia, o forse pure una ragazzetta a tratti isterica - pittoresca ma irrilevante, in definitiva. Diviene passatempo per chi ha tempo da passare, esercizio colto, consolazione che non consola. Come qualcosa a cui dedicarsi, allo stesso modo a cui qualcun altro può capitare di dedicarsi a una forma (un po' più faticosa) di giardinaggio.

IV

 

Mi perdonerà IB che passeggia, spero, in una sua eterna Venezia.

Ma sento una voce che non mi dà requie. Se la partita della conoscenza è già conclusa, la poesia che viaggio è? Saranno preferibili altre traiettorie più avventurose. La scienza, ad esempio. O lo sport, dove almeno non si sa ancora il risultato (eccetto strane eccezioni, come quasi tutte le partite della Juventus, grazie agli arbitri). IB è netto su questo punto. Dice che in genere non più dell'1 per cento di un popolo si interessa di poesia. E poi però chiede che sia messo un libro di poesia sul comodino in ogni stanza di albergo. Ma perché? Se il viaggio è già destinato, perché non mettere in ogni stanza d'hotel una copia della settimana enigmistica? Fa bene al cervello, dicono... Oppure, visto che il destino è tragedia, e comunque lo si viva - con mente coltivata o mente più grossolana - l'esito non cambia, si deve convenire che la disponibilità di una gran quantità di canali tv di ogni genere con ogni tipo di distrazione è una buona idea.

Non ho mai pensato che un sacco di gente debba leggere in modo sistematico poesia. Non è questo il punto. Che i cultori veri di un'arte difficile, impegnativa e di poca soddisfazione come la poesia, siano una esigua minoranza non mi stupisce. Il problema è invece in quale considerazione e dunque quale atteggiamento di apertura o interesse o di chiusura la poesia trova nella maggioranza di una popolazione. E intendo maggioranza non in senso elettorale, ma stragrande maggioranza. Insomma si tratta di un problema educativo. È su questo che gli atteggiamenti di pre-giudizio sulla vita espressi dai poeti in sede non di lavoro sulla "materia poetica" secondo me influiscono molto. Infatti, se non si tiene vivo il senso aperto di un rischio, di una avventura di conoscenza, se insomma comunichiamo che la partita è finita, se si sa il risultato, come potremmo mai agganciare il vero motore segreto di qualsiasi lettore, non solo di poesia? Questo motore, o fame se volete, credo vada nutrito dal senso d'essere in mezzo a un rischio. Ci si confronta con un autore, (auctor da augeo, aumentare) perché si pensa - per quanto inconsciamente - che vivendo si sta correndo il rischio di perdere qualcosa di più della pensione o della faccia su Facebook.

Il lezioso snobismo per cui certi poeti (anche IB è incline a volte) danno a intendere che la gente potrebbe o dovrebbe leggerli anche solo per una sorta di puro intrattenimento (dai su, siamo dentro e dopo il '900...) è solo indizio di una sorta di resa della poesia rispetto al suo compito. Se infatti un lettore nutre qualche senso del rischio, per quanto confuso, perché andare a cercare chi non sta più correndo questo rischio, chi è già arrivato, chi non rabbrividisce? Per una cronaca poetica del mondo? Beh al massimo si cercherà qualcuno che sia d'accordo, o comunque questo consenso non del profondo agirà più che i motivi estetici di un'opera nel determinare la preferenza.

E infatti, è facile notare come un più largo consenso è riservato a poeti che in fondo non contestano i tratti fondamentali del pensiero dominante. Qualcuno penserà che mi sto facendo un problema inutile. Che i poeti più conosciuti sono sempre quelli più affini al pensiero dell'imperatore, o alle sue dirette o indirette convenienze, sia esso Augusto o Giulio II o sia un potere senza volto apparente. Ok, basta intendersi sul fatto che "deve essere" così. Io non lo credo. Ci sono casi anche rilevanti che dimostrano il contrario. Basta pensare a Dante. Non ha certo pensieri condivisibili per molti uomini e giovani della nostra epoca, ma il motore del suo viaggio, il suo rischio parlano, e come, a tanti.

Si può osservare che questo processo di erosione di significatività, come si evince dal trattamento e dall'esito che la poesia riceve nelle scuole e nelle università, sia in atto da tempo. E non è un caso che i poeti che questa epoca esalta sono appunto interpreti ottimi per tale processo. La visione di Brodskij condanna la poesia a essere semplicemente una cosa preziosa ma noiosa in questa civiltà, o stimolante per chi ha tempo da dedicare a una arte bizzarra. Preferisco di gran lunga le "non riflessioni" sulla poesia di qualche vecchio capraio iracheno, o di qualche bambino di Matera o dei giovani suonatori di organetto delle campagne lucane o di una diciassettenne albanese figlia di immigrati. Gente che alza lo sguardo e l'ascolto perché pensa che il poeta - e non per meriti strani ma per funzione sociale - possa fornire qualche indicazione strana per fare questo periglioso viaggio in una valle di lacrime. Quel pianto non è solo segno di tragedia.

Non sto offendendo la intelligenza di IB, ripeto, anzi la trovo ammirevole e di certo lontana dalle mie possibilità. Ma vedo che questo libro di uno dei poeti più acclamati e noti del mondo, è pericoloso per la poesia. E infatti, per dirne una, IB dice di ammirare nella tradizione italiana GB Marino, e trova interessante Magrelli. Ok, siamo in un epoca manierista e dove va di moda l'arguzia, ma suvvia... Si riscatta quando dice che gli piace Les Murray. A parte le battute (ma, Dio mio, Marino! Va bene le invenzioni barocche, la scrittura arguta... ma suvvia, mai letto Jacopone o Tasso o Leopardi, Mr IB?) trovo che queste preferenze siano ovvie per uno che definisce la poesia come un "acceleratore mentale" (una settimana enigmistica per spiriti raffinati?)

Se si tratta di questo, ne conosco almeno un paio di migliori. E se chiedete in giro ve ne indicheranno un sacco, di questi acceleratori mentali.

I grandi finanziamenti pubblici della ricerca sono tutti indirizzati a creare un cervello superumano. Accelerato. Non credo che a questi tizi che manovrano le somme dei grandi investimenti pubblici sulla ricerca gliene freghi molto della poesia. O forse sì, come elemento per dimostrare che ce la stanno facendo a replicare il cervello umano. E infatti qualche pirla ogni tanto si mette lì a dimostrare che anche un pc può comporre versi. Anni fa rimasi colpito - devo averlo scritto in una poesia, "Blues stasera del vento" - che certe conclusioni di Italo Calvino erano in tutto simili a certe pubblicità dei provider delle connessioni internet. "Gli scrittori più noti / arrivano alle stesse conclusioni dei pubblicitari". Quasi nessuno deve aver capito quei versi. Ma sono lì.

V

 

IB purtroppo è morto abbastanza giovane, avrebbe potuto dare ancora molto. È stato protagonista di una esistenza che ha avuto la ventura (al di là di quanto egli avesse voluto o avesse coscienza, come ripete più volte) di rappresentare la fine di un mondo, quello basato sul dualismo politico e anche culturale Ovest-Est. Si trovò al posto giusto - che in realtà era un posto sbagliato, il confino - nel momento giusto. A chi perseguiva una politica di fine dei blocchi (ora vediamo che non ne sono venute solo rose e fiori come promettevano) poteva servire il poeta esule ebreo e antisovietico. Era amico dei poeti che contavano molto e ne ebbe l'appoggio. Lo meritava. Auden, ad esempio, fu per lui quasi uno zio, e lo ospitò a Vienna.

Su alcuni temi si notano cambiamenti, progressioni, a volte anche un acquisto di spudoratezza. Ad esempio, molti intervistatori lo tormentano sul tema della religione. Del resto, lui ha scritto poesie ispirate a figure dell'Antico Testamento. E per l'intero libro, lui "del tutto ebreo" come si descrive, rassicura i suoi interlocutori che non ha una fede organizzata secondo una istituzione etc., allarga il discorso sulle letture orientali, insomma allarga il discorso. A un certo punto, però, saluta il nascere di una società finalmente post-cristiana, fuori da quel che chiama "psicologia da emporio di droghiere che sta dietro al cristianesimo" (echeggiando ma senza citarlo un titolo di Harold Bloom "La religione americana. Nascita della nazione post-cristiana"). E finisce per definirsi un "calvinista", ovvero un uomo che ha una coscienza della religiosità come sola moralità. E ingombro di sensi di colpa. È un'ottima idea di religione per chi detiene il potere. La religiosità ridotta a sola moralità infatti, permette di mantenere inalterato il senso di chi sia signore della storia.

IB ha una caratteristica invidiabile, oltre a quella di tessere versi ariosi e densi, ovvero la multiforme intelligenza gli consente di evitare ogni caduta retorica. Si vede che evita con cura risposte che erodano un margine di "sicurezza" che coincide con una sorta di inafferrabilità.

Le interviste in molti casi si soffermano su testi più significativi. La sua vita è una "astronave", come lui la definisce in una delle interviste finali e sembra allontanarsi e portarlo finalmente altrove dalla tragedia. Lasciando piccoli gesti, le poesie, come fiori su ciò che è spaventoso. O su una tragedia che, ormai accettata e indiscutibile come destino, ha ridotto il suo morso, e appare quasi come un mesto sottofondo, un grido già trasformato in elegia. Una elegia contemporanea che ama chiamarsi tragedia, ma che ha in parte già i tratti di una nuova creatura o maschera, il volto letterario di quel che Del Noce chiamava nihilismo gaio.

Ma questa idea poesia come corona funebre, come decorazione e decoro sulla tragedia interessa forse altri. A me, con tutto il rispetto per IB gran poeta e gran fumatore, no.

2 pensieri riguardo “Brodskij, gran poeta pericoloso per la poesia

  1. Nel congratularmi per il saggio, che parte dalla concezione di Brodskij della vita come una realtà già data e decisa cui apporre un commento in forma di poesia, credo che esso possa essere letto in maniera complementare a un saggio del 2004, pubblicato sulla rivista online Carmilla, in cui M. Coetzee esaminava la produzione saggistica di Brodskij. Coetzee evidenziava come sia il linguaggio, per Brodskij, a lasciare l’impronta sull’uomo, che ne è strumento: per citare Brodskij, il linguaggio si riversa “nel territorio dell’uomo dal regno di verità e di funzioni non umane, che esso sia in ultima analisi la voce di materia inanimata.” La metrica, la prosodia sono “grandezze non sostituibili”, scrive ancora Brodskij: tralasciando il problema se, più che non sostituibili, si possa delegare a esse la grandezza, maggiore o minore, dell’uomo che scrive e di colui che legge lo scritto, chiamiamolo così. Che è già un po’ più dell’ uomo è come strumento di forze non umane. Coetzee era colpito dalla consonanza fra questa visione della poesia e quella di uno Stato etico o di polizia che fa del poeta il portavoce delle masse: una forza sovrumana anch’essa di fronte alla frazione infinitesima di quella realtà che lo sovrasta.
    All’umanesimo laico di J.M. Coetzee ripugnava una riduzione del poeta (visto che di questo si parlava) a un ruolo così servile; lontano, in effetti, dalla poesia e dall’esperienza personale di Brodskij. A me, piuttosto, sembrava che questo concetto del rapporto fra linguaggio e poeta fosse affine alle teorie dello Strutturalismo, in cui il testo non appartiene all’autore più che alle forme e alle pratiche del discorso e al lettore: dalle teorie e pratiche dell’Oulipo, del testo come prodotto dei meccanismi linguistici che, conosciuti nelle loro forme e funzioni, generano in modo pressoché automatico la poesia e la prosa, la poesia di Brodskij mi sembra molto distante.
    Certo, la fiducia di Brodskij nel linguaggio come Spirito può essere interpretata in modo anti-umanistico e non religioso, quanto meno: ma non è, quanto meno, accostabile alle meraviglie promesse dal Brave New World transumano. E ai poeti non chiedo coerenza fra poetica e poesia: come lettore, mi aspetto solo che la poesia mi parli con una voce che io possa sentire come vicina, alta o a lato o dentro le parole come se a parlare fossero le cose stesse: una voce ‘mia”, in un certo senso (e in un certo senso, limitatamente a questo, darei ragione a Queneau). Brodskij, perciò, rimane uno dei pochi, rari poeti che emozionano e induce a pensare e prima ancora, a avvertire, a percepire in modo più profondo il.mondo che ci circonda e le parole con cui lo viviamo fuori e dentro di noi.

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