Lorenzo Babini, Stanze, Moretti & Vitali, 2024
di Vincenzo Gambardella
Caro Lorenzo Babini,
l’improvviso fa sussultare per la sorpresa, oltre che per la Grazia a cui rimanda. Io l’avverto così questo avvenimento che s’insinua imprevedibilmente nel tempo, che sembra in anticipo sulla vita, ma non lo è, è solo destino che ci riguarda, e mi viene di leggere il tuo libro dall’indietro in avanti, da “Ad bota”, tradotto improvvisamente o d’improvviso, che consultando le note scopro essere la poesia più vecchia scritta da te, e che nella mia ignoranza del romagnolo di Ravenna, io intendo come un colpo, lo sparo della partenza delle gare di corsa o di nuoto, quindi un fatto che accade e si afferma da quel momento in poi. Allora, “[…] dagli spalti remoti del futuro”, pag. 63, vado avanti fino al primo verso della raccolta: “In tenebra ritorna ogni cosa splendente […]”, pag. 9. Due versi che possono scaturire uno dall’altro, formando una nuova poesia: “Dagli spalti remoti del futuro / in tenebra ritorna ogni cosa splendente”.
Abbi pazienza, ti chiedo perdono per la libertà che mi sono preso, di incolonnare due tuoi versi distanti fra loro, ma è nella nostra natura di credenti invocare perdono, che non è cosa da poco, e poi ti confido che il mio è frutto di un metodo, operato da un professore di mia conoscenza, il quale anche lì, all’improvviso, di botto, davanti a me, capovolse un quadro stampato su un manuale di storia dell’arte, e con somma sorpresa, mi disse che potevo cogliere particolari del dipinto che non avrei mai visto nel modo corretto. Si trattava de “La muta” di Raffaello. Muto il quadro e muto il soggetto, eppure occorrevano le parole per dire quanti dettagli nuovi si rivelavano a quella visione. Dunque che diavoleria era? Ma questo solo per dire l’unicità che attraversa il tuo libro, la ricchezza dei riferimenti che, anche adottando un approccio diverso, eccentrico, il senso non lo perde, non scivola, anzi resta alto, e la terra mantiene la maestosa altezza del cielo, e dal cielo arriva la varietà infinita della luce sulla materia solida che ci circonda e che siamo. Non a caso “Verde e azzurro” è il titolo della prima sezione del libro, che si apre sui colori del mondo e avvia il suo canto da lì, non in contrapposizione. Contrapposizione che oggi è la norma, lo stile della relazione, mentre qui si tratta dell’antica aspirazione al canto, da cui derivano bellezza e desiderio del dire, o l’enigma della bellezza che anche fra le sofferenze ci dona.
“Nella notte si accende il desiderio […]”, pag. 13, di nuovo il buio come ricchezza, come chiarezza e rivelazione, come presentimento di nuovo lume. Scrivere significa trovare il luogo delle parole, capire dove si trovano (attenzione: non dove vanno messe!), e “Stanze” è il luogo generativo. L’inizio, dopo il prologo, è questo:
Nella notte si accende il desiderio
i lampadari nelle grandi sale vuote
del castello, sulle tavole imbandite,
le luci dell’ospedale,
i dottori che muovono la penna sopra il viso,
le luci delle torce come lucciole,
come lucciole nelle valli buie…
(il filo è perso, sganciato dalla visione, disperso
nelle vertigini emicraniche) e ora
nello sfrangersi del ferro e delle fibre
ho fumato e bevuto come un pazzo, come un pazzo
ho corso nelle strade, nel buio
tra le torce,
cercandoti come cercano gli insetti
nel nero della notte una scintilla.
Al centro della stanza, nell’esaurimento,
le pareti, i tendaggi, il lampadario
di cristallo si muovevano nel vortice.
Prima del tonfo: l’ancella col manto azzurro
in una spirale di luce,
le bocche affannose dei pesci gatto
sotto lo specchio d’acqua.
E poi la seconda poesia a pagina 14, il buio è condizione di luce, che qui si fa presenza e parola.
Eri grande e lucente
nel centro della stanza
e io volevo parlare, parlare…
ma questa parola conosce il tacere e si frange,
si disfa, s’insabbia, scompare
nel turbine della tua luce.
Non mi frena il pudore per dire che si piange a leggerti, arriva un groppo in gola, per questo stare nel solco dell’emergenza, che è più della commozione, è carità incisa nei versi, mirabili per dolore e misura, ma che tendono fuori, nell’immenso dell’essere che siamo, noi così piccoli. Con dolore dire, nel dolore sperare. Il dolore degli altri e il proprio, lo voglio dire in questo preciso momento, che cancella luoghi e natura, che spoglia e spolpa, invade, non ha misericordia, rischia l’afasia.
Questa parola è avvilita ora, è franta,
bagnata, spolpata dalla corrente,
rincorre un filo che ha perso,
il filo del discorso. Non sa
riconciliarsi con il presente.
Se ha corso
ha corso fuori dal tempo, se ha visto una luce
sono passati cent’anni.
Non conosce altra gioia che questa:
una camera, un giardino
al di là dell’oceano, al di là di se stessa,
al di là di me
che sono polvere e nebbia
in un angolo oscuro del sonno.
A tratti, da qualche tempo, sui social, in tv, ci soccorre una canzone che scioglie il nostro io dall’assalto delle notizie, il nostro strazio dalla preoccupazione. “Dove sei ora” dice il ritornello, urlato durante le interruzioni delle pubblicità. Dove sei ora che è tornata la guerra, e ci sono morti e morti sui nostri schermi. Dove sei Dio? Proteggici da questa maceria del Novecento che si ripresenta insieme ai suoi fantasmi, la sua follia, il suo guasto totalizzante e demolitore.
Scusa Lorenzo, ma la tua poesia mi ha fatto pensare a questo, non al Medioevo o al dolce stile inaugurato dagli antichi, che pure evochi in più parti, ma al segnale di vita che tu lanci nel vuoto, sfidandolo, in modo da renderti protagonista fiero del tuo gesto. “A volte è inverosimile esserci […]” scrivi a pagina 17, che è come mettere un disco sul piatto e uscire, per lasciare andare la musica da sola, nella stanza, libera (almeno lei!). Riempire la stanza della solitudine nostra, della nostra assenza. Che testimoni essa per noi, il nostro dolore. Penso alla fluviale “God Bless The Child” suonata da Jarrett nell’83. La conosci? Io l’ascolto sempre. Ma va bene qualsiasi cosa purché ci aiuti, favorisca riflessioni. “Scrivere con la pietà sulla punta della penna”, me lo diceva lo scrittore Luca Doninelli. Me lo ricorderò sempre, è una frase che ho fatto mia. Qui, nel tuo libro, il distacco si fa prossimità, entra nelle nostre stanze cent’anni dopo, come all’inizio, col suo nome. È la dedica che tu hai consegnato al lettore. Di conseguenza, secondo il mio parere, si compie una comunione nel tuo pensiero, non impalpabile, non irreale, bensì concreta, fissata, avvertibile nell’esistenza che racconti, insomma una condivisione, un’integrazione fra dolore e assenza, e fra il passato e il presente, “che desidera ogni giorno oltre misura”, come dici tu.
Caro Vincenzo,
la tua libera, unica ed eccezionale capacità di lettura, che ammiro da quando ti conosco e per cui ora anche ti ringrazio (essendone oggetto), ti permette di inquadrare il mio libro in una prospettiva per me imprevedibile, capace di cogliere con efficacia e precisione alcuni nodi fondamentali: il buio e il silenzio come presentimento di una presenza; la tensione verso un oltre da noi stessi, che siamo piccoli e preda dei nostri idoli e delle nostre ossessioni; lo sviamento e la non linearità di questa tensione (l’ardore del dire, le sue afasie, le cadute); la tensione verso un futuro che si chiarisce mano a mano come ritorno a ciò che è stato una volta, improvvisamente, una volta per sempre.
In questo tuo andare al nocciolo della questione, con la fedeltà, la purezza e l’intransigenza che ti contraddistingue, poco concedi alle visioni più ardite e stravaganti, ai riferimenti trobadorici, alla fascinazione per l’immaginario cortese medievale, reale o presunto, che ho concepito non come effimero gioco letterario o fuorviante diversivo, ma come ulteriore ipotesi di lettura, almeno nelle intenzioni, verso ciò che, con i tuoi mezzi, hai altrimenti colto e apprezzato.
Il midons provenzale, la vergine, il cavaliere gotico, il trovatore, il motivo dell’arca salvifica, come pure i remoti scenari, quasi fiabeschi, delle antiche civiltà sono i segni storici di un cammino, di una chiamata che si annuncia e si esplicita nel prologo. O forse, a pensarci meglio, sono solo la ricca e povera materia su cui il pensiero poetico ha cercato sostegno e sostanza, avvio e slancio per celebrare ciò che di questo libro ti è stato più caro: l’annuncio di un avvenimento improvviso, nel tempo ruvido della storia, che nulla di vero cancella, ma tutto rinnova.
Desidero per questo rivendicare e proporre alla tua commossa e lucida capacità di giudizio, di cui riconosco il raro valore e di cui avverto il bisogno, anche quell’eccentricità visionaria, quell’eterodosso modo di unire le cose tra loro, che pure coltivo e che mi è caro in poesia; con l’augurio che il nostro bel dialogo (che mai così in profondità si è potuto esprimere dal vivo) ambisca a farsi perfetto, nella condivisione di questo cammino che ci siamo scelti, che è quello della letteratura.
Lorenzo