di Elvira Lops
Pontificia Università Antonianum
- La Laus paupertatis e il possesso di Sé
L’ideale di povertà professato da san Francesco d’Assisi non può essere ridotto a una forma di pauperismo equivalente al movimento medioevale con istanze ereticali sorto tra il XII e il XIII secolo in Europa. Il principio concernente la rinuncia alla proprietà sia individuale che collettiva non riguarda semplicemente l’uso o meno dei beni del mondo oppure il discernimento tra impiego e possesso degli oggetti materiali o artificiali, nonché la distinzione tra beni necessari e beni superflui. La scelta di povertà suggerita dalla Regola non bollata (1221) riguarda soprattutto una scelta di vita: la scelta ontologico-esistenziale di essere un Io che non è proprietario di nulla e che non mantiene per sé e presso di sé alcunché di sé stesso, in un atto di auto-espropriazione liberante.
Il discorso del proprietario, ovvero il fondamento del regime del possesso, in questo caso rivelatosi come possesso esteso finanche alla proprietà dell’idea del proprio Io da dover a tutti costi difendere, ci ricorda che la dimensione e la logica economica insita nell’accumulo di ricchezze cela al suo interno un aspetto immateriale di cui tener conto, che va oltre l’ambito della mera ragione utilitaria mostrando implicazioni di natura spirituale-ideale che sono state svelate da Georges Bataille (1997) e coadiuvate dalla pneumanalisi (Lops 2020).
Pertanto, si cercherà di collegare le conclusioni a cui è giunto il filosofo francese e la ricerca pneumoanalitica con l’estrema espropriazione di sé compiuta da san Francesco, la quale si dimostra la via che conduce alla perfetta letizia[1].
A una più attenta considerazione e seguendo l’analisi di Bataille, sembrerebbe che la tensione alla proprietà non derivi primariamente dal tracciare il Mio (ovvero da quell’atto di possesso in sé per sé fondato sulla logica razionale dell’utile), bensì da un autosacrificio del soggetto, dalla sua propensione all’acefalia, al taglio della propria testa, ovvero dalla resa alle pulsioni e al desiderio sovrano di voler essere sommamente sovrano. Passione, questa, condotta sino al punto di scatenare il bisogno dello spreco, della dilapidazione rituale della ricchezza, del consumo improduttivo volto a una spettacolarità ostentativa che dimostra l’intreccio tra dispendio, gloria, senso del sacro. È un ascetismo venato di superiorità e imperio, peculiare dell’espansionismo di un Me pleonastico ridondante di sé che è a sua volta dovuto alla metonimia del paragone, ovvero alla sostituzione violenta del senso dell’altro con il senso dell’Io: per cui valgo di più se tu non vali.
Se l’intento non è solo l’accumulo previdente in vista della mera sussistenza, ciò che scatena il guadagno dello spazio è la contesa per un luogo metaforico, ovvero lo spazio simbolico del limes di un Io debordante. La sequenza dei due generi di pronomi, possessivi e personali, dovrebbe in qualche modo essere invertita. È forse dall’Io ricurvo sul suo Sé, sovranizzatosi, nel ritorno deviato a sé medesimo, che si genera quel gesto di appropriazione da cui deriva la spartizione del mondo? Sicché dall’atto originario del Mio si passa alla caduta originaria dell’Io nel Sé, che nel prosciugarsi nel proprio omette il Tu facendo dell’altro un perenne antagonista. Leggere l’accumulo di beni come apparente appropriazione di uno spazio ideale, di un suolo simbolico che de facto cela il dispendio improduttivo di ricchezze al solo scopo di stupire e umiliare l’avversario, nel tentativo incauto di rimarcare la propria pretestuosa straordinarietà, genera una descrizione antropologica che sottolinea l’aspetto pletorico e non solo mancante della vita dell’uomo. Essere umano a cui non basta la semplice sopravvivenza esposta alla dialettica della conservazione, a prova del grande rilievo che riveste per lui il simbolico e l’immaginario, tanto da portarlo a uno scontro dal quale discendono il rango, l’onore, la gerarchia, tutti ricercati per soddisfare bisogni di genere allegorico-posizionale e non certo di natura organica.
La smaterializzazione dell’economia proposta da Bataille e l’individuazione al suo interno di valori improduttivi come quello della gloria e dell’orgoglio, comporta l’evidenziarsi di un altro elemento pulsionale presente nella soggettività umana: ovvero la tendenza alla megalotimia, istanza profonda di natura simbolico-semiotica. Del resto, per Kojève solo l’uomo desidera oggetti inutili dal punto di vista biologico e, soprattutto, desidera quest’ultimi non in sé e per sé ma perché sono riconosciuti degni di nota e altri uomini li desiderano, desiderando in fondo il desiderio del desiderio. La scoperta in interiore homine della concupiscenza per imitazione e della concupiscenza di catturare l’attenzione su di sé con l’intento di intraprendere un conflitto riguardante più la dimensione ego-simbolica che quella spaziale, convalida il pensiero di Hegel nell’interpretazione fornitaci da Kojève (1996) in merito all’importanza che riveste «per la spiegazione della storia la lotta a morte per il prestigio». Prestigio che, non essendo soddisfacente in quanto decretato da un’autocoscienza non altrettanto valevole, implica per la pneumanalisi la funzione del Terzo. Quest’ultimo, cioè il Terzo, essendo di pari prestigio, ha il compito di fungere da testimone, da comparsa ottimale, da pubblico dell’avvenuta sottomissione dell’altro, realizzando il riconoscimento adeguato e al contempo suscitando un risentimento che giunge persino al furore tirannico se la comparsa diviene per qualche motivo protagonista.
Da ciò si evince che tale lotta non è intrapresa soltanto per il possesso di un luogo o di beni che non ci appartengono, è un gesto rappresentativo di auto-innalzamento che risiede nell’atto arrogante di imporre a un’altra autocoscienza il dover condividere la medesima valutazione di rilevanza che ogni Io nutre per sé stesso. Quindi, la pretesa non tanto di essere riconosciuti per quel che si vale quanto di essere riconosciuti superiori, è ciò che costituisce la fonte primaria, il motore intrinseco delle vicende umane, nonché il carburante di un’asimmetria fondativa che porta a quello status kantiano di “socievolezza asociale”. Tale megalotimia, sottolinea Francis Fukuyama (2019), espressione del desiderio hegeliano nonché caratteristica precipua dell’uomo derivata dal valutarsi sopravvalutandosi, è stata – nella storia della filosofia – indicata e concepita in vari modi: nella forma di thymόs, vanagloria, amor sui, desiderio di lode, amore della fama, prestigio e altro ancora. Tra i tanti approcci alla descrizione di questo disturbo di natura pneumica, è da ricordare la questione dell’“uomo invisibile” posta da Adam Smith (1982: 50-51), per il quale l’uomo cerca in tutti i modi di migliorare la sua condizione attraverso l’accumulo di “beni posizionali”[2] soprattutto perché
il non passare inosservati, il fatto che ci si occupi di noi, il venir notati con simpatia, con compiacimento e con approvazione, sono tutti i vantaggi che derivano da essa. È la vanità che ci interessa – continua Smith – non il benessere o il piacere. Ma la vanità è sempre fondata sul crederci oggetto di attenzione e approvazione.
Una mania ossessivo-compulsiva, potremmo concludere, che genera il risentimento dell’invisibile o di chi si reputa non visibile a sufficienza. L’istanza ego-spettacolare colta dal filosofo in ciascun individuo ci fa comprendere e considerare il decentramento del posto della “ragione utilitaria” nell’ambito dell’esercizio dell’agire umano, nonché l’importanza che per l’uomo riveste la propria parvenza nell’immaginario sia personale sia collettivo, sino alla costante ricerca della gloria sui nell’appropriazione e accumulo di ricchezze. Partendo da una suggestione nietzschiana (1993: 611), si può desumere che quando la persona si commisurò alla persona per misurare se la sua posizione fosse superiore, tale inganno iniziale determinò l’origine di una concezione di Sé menzognera e la tendenza ancipite di prendersela con sé e con gli altri per non apparire ciò che si vorrebbe essere, pur non essendolo.
Il dissidio interiore derivatone provocò l’Io spezzato dentro e la conseguente invetrinazione perpetua del suo Sé. Quest’essere permanentemente posto in vetrina si trasforma nel principio di auto ed etero-sorveglianza da parte di uno “sguardo” che tormenta divenendo radice apicale della disarmonia tra le parti. Tutti i dissapori comunitari poggiano sul sentire il proprio e l’altrui sguardo che giudica, costituendo de facto l’Herkunft dell’insoddisfazione strutturale di ogni apparire senza necessariamente essere, di un’impostura tradottasi in costrutto logico-esistenziale, prologo inevitabile di un contendere programmatico. In definitiva, l’invetrinazione attuata diviene strumento propagandistico di un me metaforico che intende Dio al posto di Io. Quindi, il rivendicare da parte di Francesco la povertà significava affrancarsi non solo dai beni materiali in sé e per sé ma soprattutto spogliarsi della propria posizione sociale e maggiormente della posizione di rilevanza acquisita nell’immaginario collettivo, vincendo così la paura del ridicolo, del disprezzo, dell’insignificanza. Ma a tutto questo che Francesco aveva già guadagnato, potando i rami secchi della vanità, mancava l’atto finale della completa espoliazione, il dover salire quell’ultimo gradino che porta e comporta la totale ed estrema povertà: la povertà di un Io senza Sé.
- Dall’io metaforico alla “perfetta letizia”
Per comprendere il passaggio conclusivo che condurrà Francesco alla “perfetta letizia”, è necessario conoscere il contesto storico-personale che lo portò al passo decisivo. Intorno agli anni 1220-1223 egli visse una grave tentazione dello spirito. Un travaglio doloroso, una lotta interiore tormentosa, una magna temptatio (FF 1798) relativa al rapporto conflittuale vissuto con i suoi confratelli per l’ideale fondante la comunità da lui costituita. L’agonia interiore durò vari anni, fino a quando intuì che quella lotta per l’ideale derivava dal voler continuare a essere attaccato a qualcosa di sé stesso. Non riusciva così a liberarsi della logica economica del possesso per poter giungere alla perfetta espoliazione di sé, facendosi “piccolo” nell’atto di denudarsi dei paramenti di un ascetismo che in fondo nascondeva una forma larvata di superiorità. Al contrario, avrebbe dovuto essere povero di rivestimenti egoici nel tentativo di non possedere niente di suo neanche l’idea di sé medesimo. Tormento che persistette a lungo finché si avvide che l’aver lottato strenuamente per l’ideale era stata una forma di menzogna: un inganno perpetrato nei confronti degli altri e di sé stesso in quanto non era stato altro che un volersi elevare per poter imporre la propria volontà mediante le stesse modalità improprie del potere. L’abbandono della “piccolezza” lo aveva indotto al tradimento della povertà: di lì alla perdita della pazienza, dovuta all’essersi stanziato presso le latitudini dell’orgoglio generato dall’“ira verso di sé” che rendeva impossibile abbandonare la proprietà più radicata.
Il possesso dell’immagine è l’origine di ogni ulteriore possibile possesso. Sicché non il bisogno materiale stricto sensu quanto il bisogno di sottolineare l’eccezionalità di un Io capace di elevarsi sugli altri, è il teorema imposto ed è ciò che preoccupa in fin dei conti l’uomo protesico, cioè l’uomo bisognoso del supplemento della curvatura del Sé in sé stesso, in qualità di protesi indispensabile per poter vivere.
Per concludere, la concretizzazione di un dialogo fecondo è possibile solo a una precisa condizione: tramite il prosciugarsi dell’antagonismo competitivo volto a sopprimere la verticalità ontica. Per giungere allo scopo della deterritorializzazione dell’intimità ego-strutturata, incapace di rimodulare l’apparato lessico-concettuale del soggetto a favore del recupero dei legami paritetici, è indispensabile eliminare l’elemento di disturbo alla comprensione erga omnes e non inter partes dell’altro nella sua specifica alterità. La ritessitura auspicata che sfugge alle maglie dell’ordito precedente è propria del soggetto insoggettivo (Lops 2020). Quest’ultimo è propenso alla pace anamartica, alla concordia interiore nella ricomposizione di quella frattura verificatasi ab initio nell’intimo umano che ha prodotto la pneumomachia originaria. Tale disturbo dissociativo separando l’Io reale dall’Io fittizio ha generato uno spazio interno frazionato e conflittuale nonché una collettività costituitasi come spettacolo allucinatorio di Sé deliranti che costituiscono tra loro rapporti aggressivi in vista dell’accaparramento di un posto di rilievo nell’immaginario simbolico sociale.
Altresì, la suddetta soggettività integrata – avendo dislocato il suo centro dall’univocità del proprio per giungere all’ultimità posizionale di chi non tende all’affermazione privata, bensì a una coesistenza valoriale fondata sull’importanza dell’altro – perviene all’eutimia irenica, stato di letizia ontica a cui si giunge mediante l’abbandono dell’inquietudine del non è mai abbastanza attuato a livello esistenziale.
- La perfetta e vera letizia
Per Francesco la ricerca della “perfetta letizia” si intreccia con la ricerca della “vera letizia”, individuando sia la qualità (il massimo grado) sia l’autenticità (l’essere vera) di ciò che rende integralmente soddisfatto l’uomo. Le Fonti Francescane[3] che danno notizia di tale perseguimento interiore riportano un episodio in cui Francesco delinea le caratteristiche fondamentali della perfetta e vera letizia:
Ecco, io ritorno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi è?” Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza, e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui e la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima[4].
Il passo stigmatizza l’intensità e la qualità della trasformazione necessaria, condensata nella piccolezza che determina la capacità di non conturbarsi in quanto divenuto un Io povero di Sé stesso, ormai nudo e spoglio delle sue rappresentazioni. Atto consistente nel liberarsi dall’ideale dell’ideale dell’Ego e della propria auto-immagine che ha innalzato. La mania d’assoluto è, invece, il volere stanziarsi in modo assoluto, anche contro sé medesimo, e non soltanto a favore di sé stesso. Il ritorcersi, il ricadere sul soggetto di tale mania è indice di un’affezione attuata da un raggiro che produce una bieca illusorietà, un inganno antivitale, per cui il volente è danneggiato dal proprio voluto sino all’auto-annientamento, e nel suo volere assoluto a scapito di sé produce l’insoluto che ci connota. Oppure vi è ancora da svelare un “segreto ultimo”, un imbroglio originario che possa in qualche maniera illuminare l’agire umano? Come è possibile una pace che metta fine a questa guerra intestina? Come si guadagna la stabilità perpetua, e soprattutto perché la si è perduta?
La metonimia del paragone, la sostituzione del senso dell’altro con il senso dell’Io (valgo di più se Tu non vali), scatena il guadagno dello spazio, la ricerca dell’altura dell’ente, nella convinzione che solo chi si stanzia in alto è valevole in quanto tale. La posizione dell’altezza indica l’elevazione, il tenersi sopra nel luogo del superno, nel distanziamento necessario alla simbolica della superiorità conquistata, che smaschera il sotteso tendere non semplicemente a un qualcosa d’indefinito, ma alla substitutio Dei, ossia alla ricerca dell’essenza suprema. Per cui la dinamica del plus et supra diviene il destino a cui ci siamo incautamente assegnati.
Si scoprono gli avamposti simbolici dell’ontologia posizionale che individuano le mire espansionistiche dell’Io, gradiente della smania di riconoscimento della propria effige.
La logica del malanimo che richiede come soddisfazione una benché minima rivincita, proviene dall’intenzionalità del Mio, dalla struttura di un soggetto che perlustra la realtà con uno sguardo oggettivante nella percezione ricurva delle cose. L’ego-mondo che ne deriva è il mondo delle proiezioni personali, che non sta a indicare un relativismo prestabilito, ma la curvatura conoscitiva impigliatasi nel rimando al per-Me, di uno stato interiore universalmente condiviso e non solo individualmente percepito.
Questi costrutti – attestanti il modo gestionale di essere excelsus e la maniera impropria per divenirlo – sono il contrassegno di un processo in contumacia tipico dei rapporti di forza interindividuali. In contumacia sia riguardo al giudice che all’imputato, dovendo la Corte semplicemente confermare il capo d’imputazione e la pena conseguente comminata dal Giudice supremo, ovvero il Sé interiore di ciascuno per il vago sentore di qualcosa di disonorevole, percepito oltraggio e/o umiliazione non ben identificati né identificabili, che lo colpiscono in quanto latore della nullità della persona.
La contesa è la lotta contro quel nulla adombrato che, in un epilogo dissipativo, potrebbe costituire la sorte escatologica dell’umano, contrassegnata com’è dall’indigenza esistenziale. La nostra è una tendenza alla substitutio Dei e di conseguenza al rimando insistente all’immità, termine che sta a indicare un orizzonte assiologico condizionato dalla ricerca di segni del prestigio che ratifichino la costruzione sociale della persona. Quest’ultima affezione deriva dalla ricerca continuativa della propria assolutezza, il cui pharmakon[5] è l’espulsione del Me dalla cittadella dell’Io risiedente nel dressage euristico-spirituale della pochezza di Sé stessi, pervenendo a un armistizio senza condizioni delle parti dell’Ego belligeranti tra loro. L’essenzialità onto-conoscitiva comporta un’epistemologia della carità come efficace antidoto contro la prelatura ontologica, quel self-liking (la “predilezione per sé stessi”, cfr. Mandeville 1999) da cui siamo affetti.
Riferimenti bibliografici
BATAILLE, Georges, 1997. Il dispendio, a cura di Elena Pulcini. Roma: Armando Editore.
FUKUYAMA, Francis, 2019. La fine della Storia e l’ultimo uomo, traduzione di Delfo Ceni. Milano: Rizzoli.
FUKUYAMA, Francis, 2019. Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, traduzione di Bruno Amato. Milano: UTET.
HEIDEGGER, Martin, 2018. Nietzsche, a cura di Franco Volpi. Milano: Adelphi.
KOJÈVE, Alexandre, 1996. Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di Gian Franco Frigo. Milano: Adelphi.
LOPS, Elvira, 2020. Credevo di essere qui invece non c’ero. Manuale di pneumanalisi, Roma: Aracne Editrice.
NIETZSCHE, Friedrich, 1993. Opere 1882-1895, introduzione di Fabrizio Desideri. Roma: Newton Compton.
NIETZSCHE, Friedrich, 1990. Frammenti postumi 1884-1885, traduzione di Sossio Giametta. Milano: Adelphi.
MANDEVILLE, Bernard, 1999. Ricerca sull’origine dell’onore e sull’utilità del cristianesimo in guerra, a cura di Andrea Branchi. Firenze: La Nuova Italia.
SMITH, Adam, 1982. The Theory of Moral Sentiments. Indianapolis: Liberty Classics.
Note
[1] I riferimenti biblici legati alla “perfetta letizia” e al suo significato presente nelle Fonti Francescane si trovano in Cor 4-7, Gal 6,14, 1Cor 13,1, Gc 1,2-4, FF 278, FF 1836.
[2] Il termine “beni posizionali” è stato introdotto dall’economista Fred Hirsch e sta a intendere quel genere di beni di cui usufruiscono coloro che occupano una posizione sociale di prestigio. Tali beni sono ambiti da altri in quanto il possederli implica il conseguimento simbolico della tanto vagheggiata posizione.
[3] Possediamo due versioni del racconto della perfetta letizia: FF 278 e FF 1836, (Fioretti, cap. VIII).
[4] FF 278.
[5] Nel Fedro (274e-275) Platone intende il pharmakon in modo ambivalente, come medicina o veleno. Nell’antica Grecia il pharmakon era un rituale simbolico di purificazione (simile al principio del capro espiatorio) che consisteva nell’espulsione dalla città di un individuo ritenuto “maledetto” per combattere una sventura che poteva colpire o aveva colpito la comunità stessa.
Di Elvira Lops leggi anche: La geopolitica dell’Io / Saggio critico su Giorgio Caproni
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