di Rosy Ferracane
Isabella Serra, Notte, Raffaelli editore, Rimini 2016
Si potrebbe dire tanto di “Notte”, nella stessa misura in cui il silenzio stupefatto appare in prima battuta come l’unica soluzione rispettosa, l’unico commento davvero aderente ai suoi versi e al mistero che è loro intrinseco - del resto, si tratta di sposare l’opposizione tra silenzio e voce, che è solo una di quelle affrontate e sapientemente superate all’interno dell’opera di Isabella Serra.
Come di facile predizione, la notte è lo scenario in cui inizialmente, nella prima e omonima sezione della raccolta, si svolge la vicenda umana e poetica, e da cui quest’ultima muove dalla seconda sezione in poi (Vivere, Giorno, Essere). Il suo ruolo, tuttavia, non si esaurisce nella mera utilità scenografica, poiché appare fin da principio l’interlocutrice diretta della poetessa, scesa in campo, con coraggio e disarmante assenza di filtri, in un dialogo che è denudamento coraggioso, abbraccio mai pago, anelito costante.
Isabella Serra ci dà appuntamento alla fine del giorno, l’inizio di un tempo sospeso in cui tutto viene messo a fuoco e prende forma. Ciò potrebbe apparire come un paradosso solo fino al momento in cui non si consideri che il buio non è oscurità totale e annichilente, ma permette di distinguere sagome e figure (“Quando la notte cresce / accarezza i lenzuoli stesi, / aranciati dalla luce del lampione, / la donna che lava i piatti / in una delle cento finestre / che s’affacciano sul mio balcone”). Lo stesso non può dirsi del sole che, contrariamente a quanto si pensa, non spiega affatto, non aiuta a delineare meglio le cose, ma annienta nel suo chiarore.
In tal modo Isabella Serra spoglia la notte dei panni di nemica, vestiti come d’abitudine nell’immaginario collettivo, e la fa diventare compagna, con tutti i suoi elementi caratterizzanti (“né orrendo è il grido / di civetta che ricorda dicono /la morte”). Quella che si respira è una sorta di complicità latente, a un tempo ironica e giocosa, non per questo da non prendere sul serio. Una sorta di complicità, sì, e di magia: è il segreto di un incanto spartito con la luna, vista come una maga che scosta le tende del cielo notturno e spande la luce di una risata maliziosa; la stessa luna il cui privilegio la poetessa vorrebbe per sé, quello di vedere ciò che il sole annulla con la sua luce accecante, le alchimie e le ritualità che si consumano nella notte e che nella sola notte possono essere, senza adulteramento alcuno.
E se il chiarore lunare è quanto permette agli stessi versi di emergere dalla materia magmatica della notte, è il vento ad attraversarli: veicola il suono, smuove la calma, anima le ombre dei giardini e fa danzare i riverberi di luce sugli specchi d’acqua (“e tutta quella calma smossa dal vento / i flutti sotto le barche / le calli d’argento”). Persino l’immagine della foglia, ricorrente per tutta l’opera e tanto spesso associata in metafora alla poetessa, rievoca, nella citata veste autunnale, un soffio di vento che la sospinga e la faccia volteggiare nella caduta.
Ma il vento non è solo un mero agente esterno e la poetessa, infatti, non tarda a descriverlo come elemento connaturato alla voce, recuperando l’accezione primigenia di soffio vitale (“Le parole del mio canto /sono fatte di vento”) e spalancando le porte a un mistero, a un interrogativo più grande (“Solo tu dimmi, chi ti soffia?”).
Avvicinandosi a quest’opera, occorre prepararsi ad assistere a un viaggio e insieme a compierlo, a dispetto della premessa che vorrebbe ancorare l’osservazione al balcone o alla finestra da cui la poetessa si affaccia. Infatti, se la dimensione interiore della notte sembra riguardare il solo io poetico, la figura vivida e malinconica di donna intenta a fumare e contemplare, sono proprio quella finestra e quel balcone a costituire il ponte con la dimensione “altra” della notte, che vive davvero all’esterno delle case, per le strade (“così si spense il quadro / al mio infilare le chiavi nella toppa”).
Qual è la meta di questo viaggio? Nella seconda sezione dell’opera, Vivere, la poetessa si lascia andare ad un’ammissione, uno tra i condizionali più potenti in cui il lettore può imbattersi: “Vorrei tutto in sol momento / tutte le cose che di giorno s’aprono / e di notte sentono, / vorrei il tutt’uno degli eventi, […] Vorrei vivere in un sol giorno, /con le stelle che mi attirano / e il sole che mi mangia”. Vuole, dunque, il superamento della dicotomia tra giorno e notte senza annullarlo, bensì vivendolo fino in fondo e, in questa pienezza totalizzante, in questa “scorpacciata” d’essere, disperdersi e, al tempo stesso, affermarsi. Superamento che infine avviene, quando la poetessa guarda il cielo “aprirsi al giorno della notte morente”. E non è un caso, né un furbesco esercizio retorico, se il giorno comincia con una fine, se la sua luce nascente rechi dentro di sé una luce che muore, appunto, quella delle stelle. Resta comunque un avvento atteso, pur nel tremito e nello smarrimento, nel riconoscersi cosa minuta, ecceduta dal giorno e linciata dal silenzio della parola, a sua volta intimidita. L’invito è chiaro e accorato, “luce mia adorata fatti spazio”.
E un invito è quello che la penna di Isabella Serra fa al lettore, con la sua eleganza spoglia di inutili orpelli, tendente all’essenziale più che al severo, con il suo nitore che non fa sconti e non concede scampo ma che non può dirsi comunque ammantato di distacco. Al contrario, vuole e riesce a condividere la meraviglia, lo sbalordimento, l’interrogativo che la vita, vissuta davvero e non lasciata scorrere, porta con sé. Un’impresa esclusiva della grande letteratura, cedendo volentieri la comodità, le definizioni, gli ammiccamenti a chi sa solo scimmiottarla.
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Bellissima complimenti