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Il dolore di scrivere

Daniele Mencarelli si conferma con questo suo secondo romanzo una voce importante della letteratura italiana contemporanea.
Dopo l'intervento dedicatogli da Gianfranco Lauretano ora è una giovane poetessa, tra l'altro originaria delle stesse terre di Mencarelli, a proporre una lettura intensa e personale. Vale ricordare che Mencarelli fu incluso, giusto vent'anni fa, in una piccola ma significativa antologia "I cercatori d'oro" uscita nella collana "Poeti di clanDestino", da me curata, che comprendeva anche Valentino Fossati, Isabella Leardini, Francesca Serragnoli e Stefano Maldini. Tutti autori che hanno mantenuto quella promessa e sono significativamente cresciuti nel tempo confermandosi come voci autentiche della poesia e della narrativa contemporanea. Anche a questo serve il lavoro "oscuro" ma serio, se lo è, delle riviste e di chi le fa vivere con dedizione. Di questi "cercatori" infatti abbiamo bisogno.

Davide Rondoni

Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Romanzo Mondadori, Milano 2020

di Flaminia Colella

Il dolore di scrivere, la passione di scrivere, la costrizione che si prova quando si è attaccati, come a un cordone ombelicale, a una storia, a un pezzo di mondo, o alle anime, la propria e quella di altri, che non si vogliono lasciare andare, non si vogliono tacere. È vero, è come scrive il romanziere, ogni istante o attimo della nostra vita, anche quello più insignificante, urla dall’alto dei cieli, dal profondo degli abissi immensi: fate che io non sia dimenticato, fate che un brandello di me, del mio poco e niente, del mio indicibile quasi nulla, resti, si ricordi, sia impresso nella storia, nella memoria del creato. Fate che io abbia una parte. Perché sì, è vero, tutto chiede salvezza. Questo lo si impara con dolore, con gioia, mentre si lotta per vivere, se si accetta di vivere. Perché il dramma di questa nostra vita sta nel rischio di passarla senza aver capito nulla, senza aver tentato nulla, senza aver amato mai davvero nulla. E non abbiamo altro se non la possibilità di procedere per tentativi. Non avevo letto niente di Daniele Mencarelli prima di imbattermi in questo suo romanzo. Ho sentito, mentre leggevo e incontravo il suo ventenne ferito, aprirmisi sotto i piedi le voragini, le cadute su sé stessi che sembrano voli senza appigli, fino a una fine che, in alcuni casi, si desidera vedere arrivare. Il buio desertico in cui l’anima può trovarsi a vagare quando per magia viene colta da un male senza faccia, un nero in cui si gela e si trema, tanto appare oscuro e carnivoro. Tanto si legge sul rapporto che lega l’arte alla vita, tanto se ne è scritto negli anni e se ne continuerà a scrivere, e in questo caso particolare non si può non chiudere il libro, dopo aver letto l’ultima pagina, pensando a quanto l’Arte, rubando alla vita, ci nutra, ci restituisca a Noi stessi, alle nostre fragilità, alle bugie che per anni continuiamo a raccontarci per paura, per coprire il male e lasciarlo sotto coltri di silenzio. La verità ha un prezzo alto quasi quanto la libertà di dirla. Non so quanto sia costato a Daniele scrivere questo libro, ma so che ci sarà voluto coraggio per lasciare per sempre sulla carta alcune frasi, alcune parole che non fanno altro che chiedere pietà, pietà e consolazione o comprensione, salvezza da qualcuno o da un miracolo. “Per tanto tempo ho pensato che i miei occhi fossero malati, come se avessero, per una strana degenerazione, una specie di lente d’ingrandimento capace di rendere ogni visione qualcosa di unico, enorme. Dove altri vedevano solo normalità io vedevo prodigi, eventi irripetibili […] La natura mi appariva regina di bellezza, uno scrigno pieno di tesori. Tutto immenso, incredibile. Negli anni ho capito che la mia non era una malattia degli occhi, ma forse della mente. Sino ai miei venti anni di fuoco e di fiamme.” Le malattie mentali, i disturbi, le ossessioni, che tanti forse hanno dentro e non lo sanno, o magari ci convivono da sempre, o per cui son morti, o che hanno imparato a gestire, ai più appaiono come un buco nero atroce, un universo che vive altrove, lontano dalle esistenze protette e collaudate dei normali. Non è così: il ventenne che corre sulla vita come “un’altalena impazzita”, a cui ogni giornata appare “costellata di azioni, di visioni, degna di un’epoca straordinaria” e a cui il Tutto giunge con una eco spropositata, straziata, tale che la gioia ferisce acuta come il dolore più crudele, non esprime altro se non la potenza del vivente, il suo desiderio immenso, la sua finitudine sofferta, la sua miseria illuminata, che in alcuni alberga con tutta la forza della genesi, del venire al mondo, e si offre alla vista occlusa di chi passeggia per strada come contro uno schermo. Fa tremare pensare a come un corpo, uno solo, possa racchiudere in sé una tale selva di ghiacciai e incendi. Fa venire i brividi, fa piangere e sorridere, insieme alle lacrime di questo ragazzo che non sapeva e forse non sa ancora, quanto il suo chiedere salvezza, da solo, contro un muro, per sé stesso e per tutto il mondo intero, salvi tutto il mondo, lo perdoni e gli dia luce.

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