di Gianfranco Lauretano
Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Romanzo Mondadori, Milano 2020
Come ogni narratore che si rispetti, Mencarelli ci fa entrare piano nella sua storia. Il protagonista, che narra in prima persona, viene spedito per una settimana al TSO, Trattamento Sanitario Obbligatorio, per una sera di violenza vissuta a casa sua. La settimana scandirà il racconto, dividendolo in sette capitoli, uno per ogni giorno del ricovero. Questo è lo spazio che Mencarelli si dà per costruire il suo mondo, con una precisione e una tecnica di scrittura ormai indiscutibili; d’altronde, in un’intervista ha descritto se stesso narratore “come un soldato”, che non crede nell’ispirazione, nel senso che chi ce l’ha, ce l’ha quasi sempre. Infatti in questo e nel romanzo precedente, La casa degli sguardi, che l’ha fulmineamente rivelato come uno dei maggiori della nostra nuova narrativa, il tema della scrittura, della poesia, è una filigrana discreta e onnipresente: anche l’io narrante di Tutto chiede salvezza ad un certo punto ne scrive una, che rappresenta un momento luminoso, quanto umile e persino imbarazzato, nella drammatica vicenda di pazzia che il libro racconta.
Dicevo che nella storia si entra lentamente. È come entrarci allo stesso modo del protagonista: e come si entra in un camerone di un ospedale psichiatrico, già abitato da altri compagni che vivono la stessa condizione? Lentamente, appunto. Mencarelli chiede dal lettore la sua stessa pazienza, ma promette un premio meraviglioso: toccare l’anima, l’umanità degli altri, riuscendo a forare persino la corteccia dello squilibrio e dell’imprevedibilità e inafferrabilità della malattia mentale. La storia del romanzo è polifonica, l’autore mette pian piano a fuoco tutti i personaggi di un gruppo bislacco, brancaleonico, misterioso come può esserlo quello che dà vita a una simile degenza, ma ce n’è uno in particolare che è più lontano e inafferrabile: si tratta di Alessandro, un personaggio immobile, fisso a guardare in un punto giorno e notte, muto, senza reazione alcuna neppure quando viene a trovarlo suo padre, totalmente inafferrabile. Eppure, all’ultimo momento, di fronte a un fatto grave accaduto davanti a tutti, cambia posizione sul letto, incredibilmente. Ecco, la gloria dello scrittore sta nel cogliere quel cambiamento, per chiunque impercettibile. Qualcosa è successo, e non è andato perduto.
Si tratta quindi di un romanzo che aumenta di velocità con l’aumentare della conoscenza dei personaggi. A Mencarelli non sono mai interessati i fuochi d’artificio consigliati dai corsi di scrittura creativa, quegli escamotage che servono a tenere legata l’attenzione del lettore. Conta di più la consistenza della parola, la tensione verbale, il nocciolo duro, quasi scontroso, che la scrittura intercetta nel suo rapporto con la realtà. Una storia è come una cipolla, che va sbucciata strato a strato fino al suo cuore più tenero e saporito. E intanto fa soffrire, piangere. Tutto ciò che accade al lettore di questo libro è prima accaduto a chi l’ha scritto. Ci sarà un motivo, e un frutto, nel fatto che prima di arrivare ai romanzi Mencarelli è stato per anni poeta. Il dispositivo di messa a fuoco della sua narrativa funzionava già nella sua poesia, che potremmo definire di tipo drammaturgico, perché anche allora l’interesse principale stava appunto nel mettere a fuoco una scena, la quale metteva a fuoco un aspetto dell’anima umana. Una cosa che avviene a velocità esponenziale.
Uno dei temi principali di Tutto chiede salvezza è facilmente individuabile nel confine tra pazzia e sanità mentale. Confine non sempre così chiaro. Ad esempio, i medici psichiatrici e gli infermieri non fanno una bella figura nel romanzo, e risultano simpatici solo quando la loro umanità si apre a parlare di sé persino coi loro pazienti: “Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. Questo abbruttimento è la scienza?”. Invece l’uomo, sembra suggerire lo scrittore, è un meccanismo fragile, miracoloso, infinitamente complesso e tenerissimo allo stesso tempo. Basta poco per superare quel confine; basta essere ingannati sul proprio innamoramento da un ragazzo che lo sfrutta solo per il sesso, come ci dice la storia forse più struggente del libro, quella che lascerà il segno più doloroso nel protagonista. Il vero capolavoro di questo libro sta dunque nel cogliere ogni segnale infinitesimale di uscita dalla chiusura irrelata nell’io, cosa che raggiunge con la sua struttura polifonica e proprio col racconto di quella bislacca e indimenticabile compagnia di pazzi: “Dal corridoio mi fermo a guardarli. Eccoli, ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono. I miei fratelli”.