di Nicola Bultrini
Qualche anno fa, a Venezia, sono andato a visitare il Cimitero lagunare sull’isola di San Michele. È un cimitero monumentale, ben tenuto e ordinato, tranne alcuni “recinti”, tra cui il quindicesimo, detto anche “evangelico”. È il più trascurato, le incisioni sulle lapidi sono spesso illeggibili, molti marmi sono spezzati e piegati a terra, alcune urne sfondate; eppure nell’incuria, ogni cosa sembra mantenere un ordine elementare. Un cespuglio floreale ombreggiava sulla lapida bianca di Joseph Brodski, su cui qualcuno aveva poggiato un panama sgualcito. Appena dietro con sorpresa, mi imbattei in un’enorme pietra a livello del suolo, scura e liscia, è la tomba di Ezra Pound. Una rosa appassiva accanto al nome che campeggiava al centro della pietra. Solo una parola, POUND. È stata una visita a tratti inquietante, certamente di grande impatto emotivo - ne ho scritto anche una poesia - e il ricordo di quel giorno è tornato ad illuminarsi dopo aver letto l’ultimo libro di Alessandro Rivali, Ho cercato di scrivere paradiso (euro 19,00, pag. 262, Mondadori).
Durante la seconda guerra mondiale Pound viveva in Italia e qui fu arrestato dagli americani alla fine del conflitto. Fu rinchiuso in una gabbia esposta alle intemperie, nel centro concentrazionario di Pisa e accusato di tradimento. Accusa di tradimento mai provata, il processo mai celebrato. Ecco allora, come stratagemma per incarcerarlo, l’assurda accusa di follia, mai davvero diagnosticata (essendo del tutto sano di mente); fu quindi ricoverato in America in un ospedale psichiatrico. Dopo dodici anni di questo inferno, nel 1958, Pound lascia per sempre gli Stati Uniti, che giudica un paese impazzito, e torna in Italia. Qui si stabilisce nel castello di Brunnenburg nel Tirolo, già acquistato dalla figlia e dove Ezra Pound visse l’ultimo periodo della sua vita. Mary De Rachewiltz vive ancora nel castello, dove oggi studia e traduce l’opera del padre. Ogni giorno si dedica un pasto frugale e poi il tè alle cinque, come rito immancabile, per ricevere gli amici, tra cui appunto Rivali. Il libro è dunque il frutto degli incontri tra Rivali e Mary De Rachewiltz, che racconta il padre, soprattutto nell’ultimo periodo “italiano”, ma anche con frequenti flashback, che si rivelano utilissimi per svelare alcune inevitabili zone d’ombra nella complessa figura del poeta. Una foto di quel periodo lo ritrae a Venezia, in piazza San Marco. Una figura statuaria, solenne, dal portamento austero, avvolta in un lungo cappotto scuro con un cappello nero a falde larghe. E invece la figlia ci racconta che Pound era una persona allegra, dotato di un raffinato ma forte senso dell’umorismo (particolarmente evidente nelle lettere inedite, scritte in italiano, e che figurano in chiusura del volume), animato sempre da una inesausta vitalità e creatività. Al tempo stesso aveva un alto senso della responsabilità, innanzitutto per la scrittura, per l’impegno della scrittura. Per tale ragione, esigente prima di tutto con sé stesso, lo era anche con gli altri; che tuttavia era sempre pronto ad aiutare con grande generosità (ad esempio, era molto preoccupato per T.S. Elliot, “costretto” a lavorare in banca e quindi non sufficientemente libero di dedicarsi alla poesia). Nel castello Pound si dedicò quasi solamente alla stesura dei Cantos. I Cantos sono un’opera monumentale, incompiuta eppure compiuta. Fa pensare un po’ alla cattedrale della Sagrada Famiglia, ancora in fieri eppure già monumento in quanto tale. Con questo imponente poema, Pound voleva idealmente continuare la Commedia di Dante (da Pound profondamente amata e studiata); quasi attualizzarla. Non a caso l’opera nasce proprio da Dante e proprio con Dante si accinge a scrivere Paradiso; l’ultimo atto forse, in cui trovare la loro definizione. Ma i Cantos sono certamente un’opera difficile, anche se di grande intensità e sorprendente humanitas. Ne è consapevole la De Rachewiltz, che suggerisce anche che bisogna fondamentalmente “sentirli”, I Cantos, abbandonarsi a un flusso in continua metamorfosi, sentire la musica, che nei versi è un elemento fortissimo. In un certo senso la lettura deve adattarsi ad un materiale apparentemente caotico, in realtà fortemente strutturato e al tempo stesso “dinamico”. La lettura deve farsi esperienza di un’esperienza. Certamente la figura di Pound offre vari e differenti percorsi, da lui stesso tracciati; preghiera, ascesi, contemplazione. E poi l’interesse per Confucio, la Storia e l’Epica; dice la figlia “Senza Storia, non ci può essere epica e Pound cercava l’epica”.
Raccontando Pound, il libro sgombra il terreno da inutili e superficiali clichè letterari ed ideologici, per rendere il giusto merito all’uomo, al centro dell’opera di una vita. Alla fine della lettura mi torna in mente l’immagine di Pound, assurdamente e crudelmente rinchiuso in una gabbia a Pisa, esposto alle intemperie, all’ingiustizia e all’assurdità delle accuse a lui mosse. Ebbene, anche in quella condizione Pound ha continuato a scrivere, componendo I Cantos Pisani. Per coincidenza (?) mi viene in mente l’ultimo verso della poesia che ho scritto proprio dopo aver visto la tomba di Pound: “la poesia è un resistere audace”.
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