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“Tu credi che io dorma” di Luca Doninelli

di Flaminia Colella

Luca Doninelli, Tu credi che io dorma, La nave di Teseo, 2021

È la vita la vera amante dei veri uomini, scrive L.F. Celine nel suo capolavoro, “Viaggio al termine della notte”.
E la vita per uno scrittore è quella cosa che si tenta di sognare e poi dire, raccontare, stringere forse così a sé da riuscire, finalmente, ad imbrigliare nel suo scorrere. La scrittura, invece, è una lente d’ingrandimento. Uno che scrive, infatti, crede di conoscere la realtà delle cose attraverso il processo di elaborazione di pensieri che poi traduce sulla carta, di coglierne la verità quando quei pensieri lo oltrepassano, iniziano ad avere una forma e una direzione. In ogni caso, non ha possibilità di agire altrimenti. Ha solo quella fedeltà. Così gli scrittori ordinano il vivere. Per dirla diversamente, è lì che si gioca il senso del mondo, per come lo ricevono e lo vivono. Prima di tutto: lo interrogano. Il romanzo di Luca Doninelli ci mette da subito in allarme con un titolo tanto magnetico quanto enigmatico, che dice più di quanto non sembri. Chi è che crediamo stia dormendo? Chi è l’essere o la persona che ci dice “tu credi che io dorma”? Forse il tu destinatario di ogni nostra azione, il tu nascosto al fondo del nostro pensare, esserci, domandare, cambiare. Forse la coscienza, la nostra, quella collettiva. O forse qualcuno di più serio che ci guarda mentre facciamo i nostri vari tentativi. Insomma un tu così nascosto eppure limpido, sempre chiaro all’orizzonte del nostro andare, da essere al contempo un’ombra e un sole. Una straordinaria incertezza è quella che ci conduce avanti, nel labirinto di storie che lo scrittore orchestra magistralmente fino a farci perdere il filo della narrazione, volendo a tutti i costi farci smarrire insieme allo sguardo del bambino che incontriamo all’inizio, anche lui perso e disorientato di fronte all’assurdo che vede compiersi di fronte ai suoi occhi, come persi e in cerca di ricongiunzione sono gli altri protagonisti delle vite chiamate ad esistenza per scontrarsi sulla carta come su di una scacchiera senza vincitori e senza vinti. Un gioco al massacro, senz’altro, potrebbe sembrare questo libro ricco di indovinelli e imprevisti. Ma attenzione ai segnali lungo la strada. Ci sono infatti, per chi leggerà con attenzione, dei richiami, dei chiari ritornelli che i personaggi continuano a passarsi di mano in mano, di voce in voce, come un testimone invisibile fatto di respiro e carne. Così il bambino, in ordine sparso, lo passa al professore francese che lo passa all’editor newyorkese che lo passa alla regina della contea americana e al ragazzo omicida e al carnefice sovietico e al prete ortodosso, in un passaparola che non trova compimento se non nel suo stesso svolgersi. Ma qual è questo testimone? Cos’è o chi è il grande assente, o l’ignoto, o il mistero, di tutta la trama del romanzo? Ed ecco il gioco delle vite: l’enigma, di tutta la vita. Ecco la letteratura. Salva? No, non può farlo, è così piena di empietà, è il sipario per la ferocia e la iattura umana, tanto da essere ricoperta di melma, dicono i personaggi di Doninelli, riecheggiando non lontanamente Flannery O’ Connor, che a sua volta richiama Dostoevskij e Balzac. Non è il suo compito rinfrancare, risarcire, edulcorare. Solo tessere le trame dei destini, recuperarle, farle brillare o contorcere, farle vergognare di sé stesse, compiacersi nella foia mentre si uccide o si piange. Cionondimeno nulla viene perso, nulla va al macero, ma al contrario tutto si tramanda, come un testimone, appunto, che continua a rotolare da corpo ad anima, nel gorgo dei secoli. Per il lettore inizierà a sorgere nella mente una domanda. Da una parte, si ha l’impressione di una volontà distruttiva che vuole tumulare le creature che al contempo vuole in vita, vederle prive della loro carne, spoglie davanti le loro miserie. Dall’altra si assiste alla stessa volontà che accompagna le sue creature sulla strada di una salvezza possibile, che comunque non si sa se raggiungeranno mai. La domanda cresce, si fa sempre più corposa. È allora che si sussurra, tra il perplesso e il contrariato, cercando oltre il finale che non si crede il vero finale, addirittura continuando a sfogliare le pagine oltre l’ultimo capitolo, perché no, non sarà mica davvero finito così, come si chiude il cerchio, come si ritorna al bambino, al treno, come si risolve la vicenda? Insomma dov’è la spiegazione di tutto il bailamme, il gran trambusto? La risposta non è data, così, mentre l’interrogativo prende sempre più forma, mentre la fronte si distende e si accorda al gioco che avevamo creduto di non star facendo, torniamo alla copertina e al ragazzino con la faccia sporta in avanti dal finestrino di un treno, che guarda fuori il paesaggio che cambia, incuriosito. Torniamo al principio. E in quel momento, se compiamo davvero lo sforzo che ci è chiesto davanti a tutte le insensatezze della storia e alle sue trappole, recuperando a mano a mano i brandelli disseminati nel percorso, andando a ritroso per gli episodi clamorosi e sanguinari appena letti, iniziando forse a cogliere qualcosa e sgranando gli occhi per il tranello tesoci dal romanziere di cui forse iniziamo ad accorgerci, diciamo, domandiamo, per superbia, un po' per meraviglia e per assenso, ma convinti: ma davvero “tu credi che io dorma?”

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