di Davide Rondoni
Isabella Leardini, Domare il drago, Mondadori 2018
Questo libro in cui Isabella Leardini ha voluto narrare e spiegare la sua ormai lunga esperienza di laboratori di poesia con ragazzi perlopiù in età liceale, ha un merito che supera le pur molte riflessioni interessanti, le citazioni, le aperture che illuminano, la sintesi di cultura e dedizione. Intendo dire che questo libro è in realtà una specie di "romanzo giovanile interiore". Sì è vero, ad ogni pagina si parla di poesia. Si citano centinaia di versi, si tocca la vita e l'opera di molti poeti. Ma il focus del libro sono loro, i ragazzi e le ragazze che nei laboratori di Isabella scoprono la scrittura e la poesia. Del libro infatti restano soprattutto, oltre a molte sottolineature su citazioni e riletture leardiniane dei miti, quelle delicate figure che si stagliano da un fondo indistinto fatto di aule di scuola, vicende personali spesso segnate da ferite e disagi, da una adolescenza e giovinezza mal compresa da sociologi, professori e spesso nemmeno da intellettuali e politici. Una "generazione del filo" come dice in uno dei passi più acuti del libro la Leardini, un po' Virgilio un po' prof un po' sorella maggiore, scorgendo quanti fili si intrecciano, si spezzano e sono sospesi fragilmente nelle poesie di quei ragazzi. Questi ragazzi i cui nomi ricorrono in pagine strutturate e dense sono, e la Leardini lo sa, i veri protagonisti del libro. La poesia per loro (e per la loro sorella maggiore, che non esita a mettersi a nudo) è un modo per uscire dalla paura di vivere. Un modo per toccare e ammansire il drago, per ri-conoscersi in una luce diversa da quella che fino a poco prima tiene bloccati o addirittura impietriti tra le ombre, nonostante atteggiamenti e costumi spesso narcisi o esibitori. Un libro per educatori, per poeti e per insegnanti. Un libro che riporta con dolce violenza la letteratura dalla parte della vita, specie della vita fragile, quasi nel nome di Werther, di Leopardi, della Dickinson, della Plath, strappandola alle troppe frigidità accademiche da un lato e dall'altro al facilismo neoromantico di poetastri pop promossi da editori sempre più imbranati (e fallimentari) tra ideologia e mercatismo. Ne viene un libro addirittura abbondante, dove il percorso dei "sette sì", il passaggio nel bosco illustrato con metafore che la Leardini da vera poetessa sa cogliere in mille ambiti del vivente, dai giochi alla natura, e la rilettura di miti classici (cosa oggi in voga in tempi di neopaganesimo) offrono materia ricca non solo a chi di poesia si occupa ma anche a chi si vuole occupare di educazione e di lavoro con i giovani. La verità della poesia, dice la Leardini citando la Dickinson, è obliqua, e chiosa in uno dei punti più profondi del libro: "obliquo, io lo immagino come quel gesto: il braccio teso alla carezza, come l'orbita di un pianeta, come l'ellisse che compie nell'aria la corda con cui prenderemo il drago - una traiettoria, una parabola". La verità è fin da subito lo stigma della poesia che la Leardini cerca di far uscire dai suoi giovani interlocutori, la verità della loro esistenza, la verità delle cose vissute, spesso taciute, incomprese perfino da loro stessi, come il "nodo" che invita a toccare e che lei stessa esibisce di sé in queste pagine. Stranamente, se non mi son smarrito tra le tante preziose citazioni, manca l'Auden de "L'età dell'ansia" geniale poemetto della fine degli anni '40, ove il grande poeta indagava le radici dell'ansia di cui questa generazione di ragazzi sono nipoti, ed epigoni. Forse farebbe bene a tutti rileggerlo per capire da quali radici culturali e anche politiche si sia generato un Occidente di persone a volte meravigliose e però ansiose. Colpisce infatti come nel libro della Leardini, con maggiore o minore intensità, l'ansia costituisca una specie di orizzonte e di denominatore comune delle esistenze, e la poesia uno dei modi con cui affrontarla. Non c'è bisogno del resto di consultare le statistiche sull'uso di ansiolitici o gli studi sullo stress di alcuni miei amici specialisti né di vedere il dilagare dell'uso della cannabis come rilassante per notare come per molti la vita sia una prova di ansia e di stress legata alla difficoltà di affrontare esperienze che gli uomini, le donne, i ragazzi hanno nei secoli sempre affrontato. Le diversità, i primi lutti, le malattie. Certo è che soprattutto la precarietà dei nuclei familiari, la pervasivistà di usanze sociali e scolastiche prestazionali, i rimasugli di ideologie che promettono il paradiso in terra che poi non si avvera mai, e altre caratteristiche della contemporaneità hanno fatto salire il livello d'ansia. Come se fosse ormai l'ambiente normale in cui abitiamo. La poesia moderna e contemporanea, sembra dire la Leardini in questo che è anche indirettamente un bel libro sulla attualità del poetare, è segnata da questa lotta con l'ansia. Di fatto, l'autrice propone una sorta di discesa emersoniana, molto "americana", in fondo a se stessi per ritrovare il filo, toccare il nodo, uscire dal bosco. Per Emerson, infatti, in fondo a sé l'uomo trova il dio, coincidendo con esso. Emerson più astuto di Nietzsche aveva capito che l'oltreuomo non si sarebbe distinto innanzitutto per potenza ma per spiritualismo, e l'america del self-man è una grande costruzione spiritualista, i coaching i suoi ultimi sacerdoti. In questa sorta di sororale coaching poetico la Leardini offre tutta se stessa e le tecniche usate sono le dolci declinazioni di una riflessione su di sé. La via emersoniana-pagana-riminese (perché vi è una indubbia grazia marina, una generosità da pensione Cinzia, una delicatezza da cugina del mare oltre che un robusto lavoro culturale in tutte queste pagine), produce certi risultati. Così una poesia che parla ossessivamente di se stessi, come del resto capita nel rap di questa generazione da Eminem al mio giovane amico Barbarius, che brucia e si contorce per i tradimenti subiti in modo che appare irrimediabile, che in infinite rifrazioni moltiplica la immagine di sé, se ne compiace e resta sospesa tra narcisismo e teatro e caos, segna l'epoca in cui viviamo e qui ne vediamo una porzione. Non è ovunque né tutto così, ci sono ancora partenze poetiche dal colpo della meraviglia, ragazzi che scrivono partendo dalla potenza del richiamo del bello, respiro epico che più che alla suicida Plath guarda alla esperienza generosa di un Walcot o di Murray, ma certo la Leardini ha messo un dito - e tutta se stessa - nella piaga, con la gentilezza di chi non accusa nessuno, e con la ingenuità dolce di chi ama davvero. Ho accennato a qualcuna delle cause di questa esplosione della età dell'ansia e alcune sono ben evidenti nei ritratti sempre rispettosi e struggenti che la Leardini fa di certi ragazzi e ragazze. Nel suo porsi delicato e deciso, confidente, la poetessa finisce con l'accompagnare - fidandosi di Emerson, ma forse non del tutto - alcuni ragazzi fuori dal bosco. È una bella opera, intendendo non solo un libro. Un'opera di poesia e di umanità che in alcuni rari poeti convivono, a ricordare a tutti, qualsiasi sia il modo con cui la poesia si vive e si passa, quanto essa sia legata al destino personale, al segno che lasciamo nel mondo, alla responsabilità che ci inchioda: abbiamo lavorato in favore della speranza o dell'ansia? Abbiamo dato corda al drago, fottendocene se la sua coda e le fauci facevano vittime o abbiamo lavorato, scritto, amato per conoscerlo e ammansirlo...?