Cinque più due – Racconto

di Irene Ester Leo

Mia madre fa il pescatore. Sì. Mio padre se lo mangiò il mare che aveva trent'anni ed io ero appena nato. Mio padre fu mangiato da un pesce, ironia della sorte. Proprio lui che era vegetariano e nutriva un gran rispetto per il sorgere del sole e per la linfa dell'acqua. Non ricordo la sagoma esatta di mio padre, ricordo i nodi delle reti ed il sale che alliscia la pelle delle dita e le consuma, la scorza delle sue labbra, le punte ispide dei capelli nelle mie mani di essere ancora troppo misero perché potessi dare un nome a lui. Mia madre, un madre bambina, da subito si è sfilata la gonna per infilarsi un paio di stivali di gomma, ed ha lasciato cadere tutta l'ombra di una femminilità in una fossa nera adornata da una foto ed un mazzo di fiori. Lei ha appuntata sul petto solo una mezza foglia di tabacco secco, quel profumo le ricorda un uomo che non esiste più, estenuante fumatore. La chiamano la "Tabaccara". Da ragazza raccoglieva il tabacco quando il sole era un pugno nello stomaco ed il pane bianco un sogno misto ad un amaro "non si può". Inseguiva una possibilità che si è rotta sul nascere e le muove ancora le viscere dalla fame, a volte, la sera quando invece per me sulla tavola zoppa appare una pentola ed un cucchiaio d'argento, guarnito dalla lucentezza del suo occhio. È cieca da un occhio mia madre, l'ha perso cadendo mentre curava il camino acceso, un tizzone l'ha ferito a morte e lei ha perso con esso una visione del mondo, e ne ha acquisita una univoca e chiara. La "Tabaccara", mia madre, ama la mattina aprire tutte le porte della nostra casa, una casa vecchia e diroccata. Sulla collina di spalle al mare, l'eredità di un regno che non esiste più. Una casa coloniale con ben sette porte sul davanti e tutte corredate di vetri sporchi e gialli. (Ho chiuso a chiave quelle porte).
Io mi porto sulle nocche la durezza di quelle mura prese a pugni, fino a ferirmi violentemente. Fino a che il tempo ha ingoiato mia madre che la mattina all'alba partiva con la barca e con le sue braccia forti, accompagnata da un cugino di cui ho sempre ignorato il grado, terzo o quarto, come per la scala di un portentoso terremoto che ho invocato spesso.
Intanto ho cominciato deliberatamente a collezionare alternative differenti per la mia vita, ma solo mentalmente. Però ho invidiato mia madre la sua forza dirompente ed il suo vigore, l'ho invidiata profondamente quando di lei è rimasta una sedia vuota in pieno inverno, ho invidiato la morte che arriva nel pieno della ribellione, perché lei era in guerra contro la sola visione del mondo che le era rimasta attaccata addosso.
Ed io ed i miei ventinove anni, così poco reali, quasi nota invisibile su un pentagramma che non è più mio. Ho cominciato ad odiare le possibilità che avrei voluto per me e non ho mai avuto. Intrappolato nella mia vita e nelle mie mancanze.
Non sono riuscito ad andarmene oltre. Cominciai ad odiarmi, ad odiare. Hanno ragione quando dicono, che l'odio uccide. Si inizia ad uccidere per caso, ed in effetti se ci pensiamo è breve il passo tra il pensiero e l'azione. La mia prima vittima, un'amica di famiglia. Mi parlava senza remora del buon odore di mio padre, lei si ricordava quell'odore forte di tabacco quando lui andava a fare la spesa da lei, nella sua bottega antistante il porto. Io le fissavo il naso, quando era solita ripetermelo tutte le volte che andavo anche io a comprare il pane fresco. Le fissavo quel naso che aveva rubato con quelle piccole narici parte di mio padre, rubato a me e a mia madre. Mi bastò davvero poco, la invitai a casa mia con una scusa bella ed attraente: le foto di mio padre, sfogliarle assieme a lei che, ed ora potevo notarlo chiaramente, ne era invaghita da tempo. Intanto il suo naso, quel naso ladro di odori e memorie le svettava in mezzo alla fronte. Era dinanzi a me, quando la colpì con un vaso di
terracotta, e poi con una forbice da poto, cominciai a riprendermi gli odori di mio padre, raccogliendoli con cura in un fazzoletto. Là c'era Ninuccio papà mio. Nel paese si cominciò a vociferare che Maria, fosse scappata col prete partito per i suoi doveri, nessuno poteva immaginare. Nessuno poteva sapere. Giorni dopo Alfredo il fratello di Maria venne a casa mia, chiedendomi semmai avessi visto sua sorella. Io negai una qualsiasi risposta e lui che mi camminava attorno agitato, entrò in casa. Il suo sguardo cadde sul tavolo, sulle foto. Mi raccontò delle serenate che facevano assieme e della bella voce di mio padre, la stessa mia voce. Ma lui la aveva ascoltata non io, lui aveva parlato con mio padre, non io. Decisi di fare in modo che lui e Maria potessero incontrarsi. Lui tentennò un momento prima di seguirmi. Rimase immobile come una lucertola dinnanzi al pericolo, prima di voltarsi per scappare. Fu tardi, spesso è tardi per tante cose, tardi per tornare indietro. Cadde sotto i miei
colpi, quelli di una zappa piangente di ruggine, cadde, si disfò ed io pensai in quel momento alla fragilità della corporeità. Tutto si sfasciò, ma non quelle labbra, aperte, dalle quali uscirono parole, parole e parole tutte mie, tutte mie. Nel paese cominciarono ad insospettirsi, cominciarono a pedinarmi mentre andavo a lavorare nei campi antistanti la casa, mentre vendevo le mie patate, mentre tornavo a casa, specie la domenica mattina, quando sono poche le cose che si hanno da fare. Un giorno ritrovai nella mia cucina un uomo, mio coetaneo. Era parzialmente terrorizzato, voleva parlarmi. Aveva sentito, aveva sentito le ultime parole di Alfredo, mentre io gliele rubavo assieme alla sua bocca. Quando era venuto quel dì a portarmi una lettera del parroco, preoccupato per me, aveva sentito ed era scappato via. Mi chiese di costituirmi, aveva capito, aveva visto e soprattutto sentito. L'odio mi crebbe nelle mani, cominciai a fissargli le orecchie, grandi e belle, lucide e rosse
di terrore che pulsa. Accadde ancora. Cominciai a piangere, mentre in terra su di lui la mia foga ed il coltello del pane avevano avuto la meglio. Erano fredde quelle orecchie ora, ed io lo ero stato altrettanto. Ma avevano sentito ciò che non si doveva.
Corsi a lavarmi le mani, il viso, la bocca, il naso, le labbra, gli occhi. I miei occhi, così pieni di dolore, così lucidi. Somigliavano a quelli di mia madre, quando mi guardava e piangeva e mi diceva che somigliavo a mio padre, in ogni cosa. La folgorazione fu lacerante, quel "in ogni cosa" mi ribolliva addosso. Mi asciugai e mi specchiai, mio padre mi fissava ed aveva la mia faccia.
Un artiglio mi squartò il cuore.
Corsi ad aprire tutte le porte di casa, tutte e sette le porte, uscì veloce, e mi parve di vedere mia madre tra i tendaggi giocati dal vento. Ecco quell'immagine me la stampai dentro, a fondo. Avevo odiato le mie mancanze, e tutto ciò che non possedevo, ma non potevo tornare indietro. Cominciai a correre, correre veloce. Alle mie spalle tutto diventava piccolo e sterile, inutile e vuoto, quelle morti erano state inutili e vuote e non mi avevano restituito ciò che non possedevo. La strada mi diede il tempo per chiedere perdono a Dio, per riavvolgere tutto il nastro della mia vita, cominciai a sentire sulle labbra il sale delle colpe. Il mare sembrò allargarsi davanti a me, con tutto se stesso. La gente attorno mi guardava con aria attonita. Continuavo a correre. Accelerai, giunsi in prossimità del porto pieno di mercanti. Continuai verso la banchina di pietra, sudato ed ansimante. Le onde mi attendevano fiere. Mi diedi slancio con forza e mi gettai in avanti schivando la prua di un'imbarcazione. Il tonfo fu spaventoso. Andai a fondo piano piano. La mia pelle si fece fredda, il dolore nel petto cominciò a sfumare, l'acqua invase la mia bocca sorridente, le mie narici protese, le mie orecchie perfette.
Presto avrei avuto anche gli occhi di mio padre.

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