di Flaminia Colella
Imperatrice Bruno, Materia verticale, Nulla Die 2024
“Costruisci seriamente: / occorrono lutti per restare saldi oltre la propria anima / strizzando gli occhi e / gonfiando le guance alla sopportazione. / Occorre saper proseguire con la caviglia dolorante, apprendere il futuro senza ricordare la voce di tuo fratello da bambino. Qual era il mio nome? Come mi chiamava? / Gli ori si fondono, questo è possibile. / Noi non finiamo, anche questo è possibile”.
Oggi parliamo di un libro che avrà davanti a sé una vita lunga e fertile. E che si pianta, a parere della scrivente, entro lo scenario vivace e prolifico della poesia contemporanea italiana come un corso d’acqua a cui e in cui molti potranno abbeverarsi e trovare linfa. Lo facciamo a partire da questi primi versi, in cui subito individuiamo i nuclei centrali della ricerca artistica di Imperatrice Bruno, autrice campana classe 2001, che da poco ha presentato a Milano il suo terzo libro di versi uscito per edizioni Nulla Die, (marzo 2024) “Materia Verticale”.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: il titolo dell’opera è tanto potente quanto depistante, atteso che la “materia” che attira lo sguardo della scrittrice è sia quella che si cela nelle profondità abissali dei movimenti profondi dell’animo, sia quella tutta visibile ed epidermica e terrestre che affolla le vie della quotidianità più urbana, più glabra, più sfacciata e ferita. Procederemo per parole-chiavi, iniziando da questa prima: Costruzione. La ricerca della “materia”, (che potremmo azzardare essere qui inteso come termine sinonimo di “il tutto che esiste, l’esistente”) è, per la Bruno, e a ragione, attitudine che appartiene al poeta e al santo e al profeta (tutti evocati, invero, nella raccolta di cui ci occupiamo, a più riprese), vale a dire a coloro che si agitano dentro le stanze dell’inconoscibile, dell’invisibile, e tentano di nominarlo, dando così forma, e cioè sostanza, concretezza, alle cose. La poesia è, in effetti, questo stare nel rigore delle cose, di fronte al rigore delle cose, che impone di nominarle con esattezza e definitività. Nulla che assomigli ad un sognante svolazzamento dentro azzurri cieli dell’etere. Al contrario, capiamo e sentiamo che, per Imperatrice Bruno, la poesia, in quanto arte che si serve e “serve” la parola, coincide intimamente con l’umana e concretissima necessità di estrarre significati e verità dalla fucina della “materia verticale”, del magma che viene incontro ai giorni (la vita con le sue forme e i suoi dirupi di mancanza), e poi comporre, per consegnare ad Altro, possibilmente, il nucleo “dialettico” (cioè che si svolge entro un discorso) dell’esperienza.
Altrimenti, ancora, potremmo dire: evocare la materia con le parole, provando a ridirla, è la fatica asciutta alla fine della corsa, la fatica che non si può non sposare, per portare a compimento le frazioni tutte eterne dell’esistente (mai appena del “tempo”): minuti, giorni, mesi, stagioni, ere.
Possibilità, altra parola che troviamo in questi primi versi, vale a dire innamoramento e speranza generativa e generatrice, propri di chi sta dentro quel “non conoscibile” di cui sopra, e cioè soglia tra i mondi, che chiede di essere nominata, con attenzione e cura: attraverso l’ascolto. E ancora, altra parola emblematica che questi versi-dichiarazione ci consegnano e che ci invita ad entrare, stando all’erta, dentro questo libro pieno di sprezzatura e coraggio è: desiderio di infinità, vale a dire sforzo fisico, prima che spirituale e psichico, di salvare e strappare al rischio dell’oblio ciò che del mondo si incontra e che innamora, sino al punto di arrivare a desiderarlo, tanto da salvarlo. Ulteriore parola basamentale, per la scrivente sottoscritta come anche per la Bruno, (di questo ci si accorge con sorriso e senso di sorellanza) è la parola “oro”: ricerca strenua dell’unico “materiale” prezioso che non deperisce, non si opacizza, non perde di valore, e che sta sotto la montagna millenaria, resta fermo mentre i mondi girano e le forme mutano e si succedono. Si parla, si intende, di “materia” che appartiene e alla terra e al Cielo. “C’è da imparare a stare seduti /al centro di un vulcano”, incontriamo, poi, ad un certo punto, questa esortazione o comandamento, con strana e impensabile assertività, e ciò ci consente di indovinare quel che generalmente rimane confinato nel segreto di stanze privatissime, di accedere al laboratorio personale di chi scrive e sbirciare un poco dentro. In questo caso, per quest’opera (che è senz’altro imponente per lo sforzo di nominazione del mondo e della “materia”, appunto, umana e spirituale che vengono ritratte con una lingua audace e pazientemente cercata) questo possibile accesso o angolo visuale risultano di non poco momento. Per chi avrà potuto, tramite i cangianti e rapsodici resoconti che la Bruno ha fatto nel corso degli ultimi mesi anche sui suoi profili social, seguire la gestazione e la geografia variabile di questa ricerca della “materia”, tutta svolta sul campo, sanguigna, feroce, senz’altro tale dichiarazione non risulterà inverosimile. Siamo insomma portati a credere che Bruno abbia il coraggio di esperire veramente quel che consegna con sana sfrontatezza al lettore dentro questo libro: “Tutto è guerra e tutto è vita / e chi possiede e vince non è libero / dal circuito della lotta. E un giorno / è sazio e dorme alla pioggia / e un giorno ha la spalla di un amore in bocca”. Si apprezza non solo il coraggio, ma anche il continuo invito ad abbracciare la lotta e la ricerca, e cioè ad abbracciare il solo piano fecondo del vivere entro cui l’esperienza fiorisce: quello dell’ascolto e della “passione” (e cioè del patimento che si accetta per “amore”, per corrispondenza ultima), con tutti i sensi spalancati per farlo.
Continuando, intuiamo che altra parola emblema per intendere l’immaginario di questa autrice è anche “attesa” e, ancor di più, “contemplazione”. Contemplare è l’azione senza cui nulla, della “materia”, sedimenta e canta. Ogni poesia evoca in sé e dichiara l’attenzione sacra che ne ha preceduto il corpo, gli indizi di presagio arrivati molto prima del grumo di parole dense di lingua e di “sesso”, inteso questo come possibilità di vero erotismo, e cioè possibilità di un dialogo profondo. “Un amico mi ha detto / di non accettare compromessi / sull’arte e sull’amore, / io gli ho risposto nemmeno sulla morte / e sugli stati della materia: è tutto un febbrile / divenire, una morte vivissima che ci guarda / dalle borse grandi delle mamme, dai dolori dei padri, / dalle rose potate per i bouquet economici / e per l’omeostasi di questo grande / assurdo Senso, io con lei mi auguro tu faccia / un figlio”. […] “Io devo mettere al mondo che tu sei esistito”. Personalmente, mi dichiaro contenta dell’esito portentoso di questi studi senza quartiere condotti sui vari stati della materia. E profondamente colpita, persuasa che questo documento è solo un tratto del cammino forte che la voce di questa autrice ci condurrà a scoprire. Smentendo Silvia Bre, ancora, vien da dire, l’opera di poeti come Bruno non ci suggerisce affatto “la fine di quest’arte”; al contrario, vediamo, invitando i curiosi che da queste righe saranno stati invogliati, a comprare e ad entrare nelle pagine di quest’opera: futuro. Vita che matura. Possibilità. Volto Inconoscibile che ha ancora voglia di tradursi e divenire visibile.
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