di Federica Ziarelli
Flaminia Colella, La voce del fuoco, Capire edizioni, 2020
Ci sono coloro che desiderano arrivare alla cima innevata per il rischio della strada e il conseguente batticuore adrenalinico, chi per riempirsi gli occhi della bellezza di piccoli e grandi dettagli naturali, chi per sentirsi forte e valoroso in un'impresa personale; c'è invece qualche rarissima persona che sale per comprendere cosa veramente si nasconde e al contempo cela là dove il mondo è al vertice, e la neve al massimo della purezza. Flaminia Colella cerca questo nel suo andare, niente che non sia risposta al mistero che l'esistere racchiude, niente che soddisfi desideri effimeri e di natura autocelebrativa; la sua poetica si presenta priva di orpelli, scabra, spontanea come un fiore campestre, che sta lì nascosto nell'erba ma sempre orizzontato al cielo. A Flaminia non interessano i calzari principeschi, che sarebbero un impedimento alla sua corsa sfrenata: la poetessa avanza con parole scalze per attraversare prati sterminati. La sua poesia è nuda ma mai fragile, fa tremare ma non trema: espone intrepidamente il petto al dardo ardente della vita, dell'amore e si esprime poi con versi incendiati e incendiari.
Nel canto della Colella a emozionare l'ascoltatore non è il timbro né l'intonazione vocale ma la profondità, l'altezza delle note, il loro slancio nell'attraversare l'aria, nel fondersi con essa.
Sono note di ossigeno le sue, non mancano di dare respiro, di esserlo.
Non si assiste mai a un ripiegamento disperato dell'io poetico nemmeno laddove l'esistenza presenta durezza di pungoli; Flaminia sa di non essere sola, di non vivere in stessa e per se stessa e questo la apre alla speranza, all'accoglienza del tu, a un dialogo impegnato, struggente con il primitivo battito universale, con l'onnipresente enigma umano e divino: “Essere// Sentirlo/ in una grande domanda/ qui, dove i monti dividono il cielo/ dalla terra con linee semplici// Non avere altro da offrire che/ un'inquietudine// Offrirla oppure/ non offrire niente// Offrirla tutta/ di gioia e di dolore”
È la stessa urgenza di domandare a spingerla a chiedere senza alcun riparo; equilibrarsi è inutile quando si ha compreso che vivere significa stare affacciati sul burrone, in attesa di una voce, che non sia l'eco della propria.
La Colella non cerca il riposo abbandonandosi a un'osservazione estatica ed estetica del vivente, in lei soffiano venti temporaleschi, che sparpagliano e confondono per poi svelare disegni inauditi, finalmente autentici.
Leggendo le poesie di Flaminia si ha quasi l'impressione che abbia brama di scomparire nell'intento di dare rilievo alla parola, non la sua, piuttosto quella tremenda e bellissima che sta nella bocca del creato, di Dio.
Il suo scrivere risplende di umiltà e cresce poco a poco, non spinge, come un fiore si affaccia e sorride.
In queste pagine ciò che scuote, rallegra e appassiona è il comprendere che Flaminia Colella, accarezzata dalla volontà del tocco celeste, non scrive poesie per essere amata ma per amare.
Esolodi, a mezzogiorno.
Trasformati, aria
che trema.
Vibra con tutto intorno
quando tutto lo richiede.
Di ora in ora matura
per te
una domanda precisa: rispondi
con gloria puntuale,
con slancio di voglia che assale.
Partecipa a pelle scoperta
al flusso che scorre
ignoto. Dimentica
tempo e orologio: loro
non sanno di esistere.
Il mio amore
fa paura ai morti
perché li obbliga a tornare vivi.
E fa paura ai vivi
con la faccia già da cimitero.
Quando il mio amore guarda
c'è un grido
che arriva al mare.
Come un'ombra
che incontri di strada e
ti obbliga a fermarti e rallentare.
Il mio amore fa paura a me
nel taglio del respiro quando chiama
il mio nome.
Amarlo è come amare
un oceano,
un falco che vola altissimo.
Quando grido di gioia
impazzisco di dolore
e penso tutto è troppo
per il mio poco corpo
ecco subito un tremore, una pazzia
aria al centro del petto
mi senti, mi senti!
Il ruggito del mondo.