di Franca Alaimo
Dark way of Sicily – Voci black, a cura di Sebastiano Adernò ed Enzo Cannizzo, Edizioni ilglomerulodisale
I cliché sono stati inventati per essere smentiti. Ce ne sono centinaia, tutti originati da superficialità d'osservazione, acriticità, cecità etica, indifferenza, conservatorismo.
La Sicilia, per esempio, è un territorio che molti descrivono secondo luoghi comuni; c'è chi la identifica con il sole e il mare (magari sono i turisti che vengono in estate a godersi una bella vacanza) o con la mafia tout court, immaginandola come una sorta di farwest con sparatorie a ogni angolo di strada (magari sono quelli che in Sicilia non ci sono mai venuti e hanno visto solo certi film).
Io che in questa terra ci abito da settantasei anni e ne ho attraversato gli eventi, le trasformazioni sociali, gli scempi edilizi - quest'ultimi soprattutto a Palermo, città in cui vivo dall'età di cinque anni - e le vicende politiche dal dopoguerra in poi, magari trovo più calzanti ossimori come “bestemmia di luce” di Enzo Cannizzo, oppure il gioco di suono-senso “tra lupara e lampara” di Pietro Russo o, ancora, i versi della Cuscunà: “la città si spacca/ terra e cielo/ stelle e merde”.
Ma i quattordici autori qui riuniti (in prevalenza catanesi) insistono soprattutto sul "nero" (aggettivo ripetuto quasi ossessivamente nel testi di Cateno Tempio) e su altri lemmi facenti parte dello stesso campo semantico (notte, buio, ombra, oscurità), in quanto “colore” prevalente di un'atmosfera temporale e soprattutto psicologica (come nel caso della dipendenza dall'alcool trattata da diversi autori (uno dei quali il palermitano Andrea Castrovinci Zenna) o dalla droga (Fernando Lena), o in quanto simbolo di lutto, devastazione, morte.
In questo senso il lessico più irto e dolente mi sembra quello di Melania Valenti; sulle pagine che ospitano i suoi testi, ho sottolineato una sequela di verbi, quali: 'schiantatemi', 'fate a brandelli', 'spezzatele' (le ossa), 'strappate', 'rasateli' (i capelli) che esprimono quella disperazione che è delle tante femmine ribelli al sistema patriarcale e mafioso/politico, che non è poi cosa diversa. Sua è una delle poche poesie in cui sia usato il dialetto siciliano, in cui l'autrice affronta polemicamente la questione del ponte sullo Stretto: “Minchia!/ ma sulu di ponti /cc'è bisogno cca sutta?/ Sulu di minchiati/ sapiti parrari,/ di comu appizzari / a cosa cchiù bella c'avemu:/ u mari”.
La stessa sfrontatezza linguistica (“Pisciano agli angoli/ delle strade come fanno i cani”) appartiene a Iolanda Cuscunà; e quello di citare due autrici (non autori a cui è stata consentita da sempre ogni libertà linguistica) è un modo di smentire un altro cliché che vuole adatto alla donna, specie se poeta, un forte controllo sul lessico fino al silenzio, fino, ancora peggio, alla leziosità. “Ha dovuto il poeta – soprattutto la donna poeta aggiungo io –, patteggiare con la Crusca”, come scrive Adernò nella sua presentazione.
Stiamo parlando di un'antologia con un titolo in lingua inglese: Dark way of Sicily e un sottotitolo lessicalmente ibrido Voci black, che sottolinea la differenza fra i due aggettivi dark e black, che, in effetti, non sono sinonimi, perché il primo sottolinea l'oscurità, la cupezza di un luogo, di un'atmosfera (esso indica, fra l'altro, anche un gioco, una linea d'abbigliamento, una variante della musica rock), e perfino di uno stato d'animo (può infatti, in certi casi, essere tradotto in italiano con 'triste'), mentre il secondo indica un colore (il nero), ma, accostato a voce, rimanda alla musica afroamericana, ricordandoci che in essa ciò che conta è l'interpretazione personale. A me sembra di sentire in alcuni di questi versi anche la voce miracolosa e luttuosa di Amy Winehouse, mentre canta Back to Black in cui “I died” e “black” sono ripetuti ossessivamente quasi in un delirio psicotico.
Dunque, la materia trattata è oscura, l'altra faccia della Sicilia solare e vacanziera, anche se i vari poeti danno di essa un'interpretazione libera da ogni standard.
Assolutamente fuori dal coro (dopo la Valenti, già menzionata) citerei due autori che adottano modi stilistici assolutamente divergenti: il primo è il poeta palermitano Andrea Castrovinci Zenna che con i suoi sonetti 'alcolici', riproponendo uno schema ritmico e strutturale tra i più antichi (la sua invenzione risale alla Scuola siciliana), fonde insieme classicità e modernità, citazioni latine (beatitudo animis) e rifacimenti come “di tanta gioia questo oggi ti avanza” ispirato a un verso foscoliano “questo di tanta speme oggi mi resta” (A Zante), a sua volta ripreso da Petrarca (Rime, 268), echi baudelariani e crepuscolari ed espressioni del parlato, quali: “ma in fondo sì, chi se ne frega?” con un'abilità da funambolo della parola, con il risultato di tracciare abilmente all'interno di una tale commistione una importante linea di continuità tematico-compositiva.
Il secondo è Fernando Lena, cui si deve il titolo di questa antologia, rubato alla sua ultima pubblicazione nel 2020. La sua voce black mescola insieme il disagio personale (la solitudine, la lontananza dalla propria terra, la consolazione cercata nell'alcool) e problematiche sociali: la realtà mafiosa, le degenerazioni dell'amministrazione politica quali la miseria, le migrazioni, il lavoro precario, gli scippi, le rapine, “i cimiteri nei pilastri loquaci/ come pentiti di cosa nostra”; ma sa anche aprirsi a squarci di pura liricità: ne cito uno per la sua straordinaria e sapiente bellezza: “perché la gioia ha un suo linguaggio/ non imita l'invisibile ma nasce da esso/ per crescere poi nella concretezza della meraviglia”.
Infine non possiamo lasciare sotto silenzio Sebastiano Adernò, che ha concepito e sviluppato questa idea, concretizzandola grazie all'editore Gaetano Giuseppe Magro e alla collaborazione con Enzo Cannizzo.
La dissertazione, come lui la chiama, che introduce l'antologia è un vero e proprio pezzo di lirismo, appassionato, crudo, irriverente, politicamente scorretto. Emblematici mi suonano questi versi: “La notte./ Dove si abbeverano gli agnelli./ Dove si puliscono i coltelli”.
Gli altri poeti inclusi arricchiscono l'antologia di diversi temi, punti di vista, inquietudini: la prostituzione, l'inferno di certe periferie, la morte dei sogni (Giuseppe Ligresti); l'idea leopardiana che meglio sarebbe stato il non nascere (Stefania Giammillaro); il rumore di mitra, revolver, fucili (così frequenti nei tanti film sulla mafia) in Domenico Davide Pappalardo con i suoi versi ampi, descrittivi come brani in prosa; violenza fisica, uno stato di paura acuta sospesa nella brevità dei versi di Pietro Cagni; il “morto mondo di cancrena”, truffe, falsità, genti tinta in quelli di Antonio Paternò del Toscano; l'ossimorica “indifferenza celestiale/ di un Dio onnipotente” verso il male e il dolore umano, declinato anche nella fine di un amore privato in Giulio Di Dio.
Concludo questa sintetica carrellata con il dire che questo corale poetare, benché abbia come luoghi del suo accadere vie, vicoli, piazze di città siciliane, in realtà può ben dirsi universale, se è vero che il male fa parte della natura umana e che si manifesta con la stessa perversione in ogni angolo del mondo.
È stato detto che la Sicilia è un universo e perciò mi piace vedere in questi versi la denuncia, il dolore, l'angoscia di ogni uomo, non però come emozioni e posture sterili, ma come fermenti di mutamento: “Sarà, come scrive Adernò, senza esplodere una rivoluzione”.
Può interessarti anche:






Leggi anche
- 15 ore fa
- 2 settimane fa