Le incombenze e la grazia di Lucrezia

di Davide Rondoni

per Di morte e altre incombenze, di Lucrezia Lenzi, Augh Alter ego edizioni

 
C'è un’oscillazione tra adolescenza e classicità nella poesia d'esordio della Lenzi, e questo produce effetti di strano incanto. Queste poesie per l'uomo dalla pelle di porcellana inglese, offerte da una figura femminile sospesa tra dolcezza e senso del tremendo sono un diario personalissimo ma con qualcosa di assoluto che le sottrae alla più consueta cronaca poetica. Un libro percorso da una vena malinconica e anche da veri rintocchi di morte e però capace di momenti di grazia invincibile. La morte è compagna sempre del pensiero e del corpo, ma spesso la grazia (esiste altra parola che si possa dire senza tremare così?) genera i veri soprassalti nel lettore.

Come allorché si legge:

Ho fatto un tuffo
– mi sono tenuta
al largo –
ed ho salato l’acqua con le mie lacrime.
Così è nato il mare.

Certo il libro della Lenzi avrebbe potuto passare un vaglio più vigorso, se qualcuno accanto alla iniziante poetessa fosse stato meno indulgente ci sarebbero state risparmiati un po' dei più frequenti stilemi di poesia erotica ricorrente, o certe frange inutili, ma non è questo il punto.
Notiamo – ma la verifica si darà nei prossimi passi – una sorta di fermezza, forse una decisione, nella voce che ben promette. Insomma un segno che il dire della poesia ha una sua specifica forza, un peso, una verità intransigente.
Come se il dire in poesia rendesse più nuda e lucente l'esperienza, ne precisasse i contorni in una chiarezza a volte insopportabile ma preziosa sempre, e preziosa a fare in modo che non se ne perda lo specifico, l'elemento che merita memoria e, in un certo senso, perdono.
Voglio dire che in questa voce iniziale e però decisa, si avverte una giusta domanda alla poesia: che non sia celebrazione, che non sia orpello o sentimentale promemoria, bensì laser, bassorilievo, indagine.
Così una vicissitudine d'amore unica e irripetibile (come tante, per fortuna, perché grande è l'amore e forte come la morte sempre) trova la sua speciale epica:

Mi sono innamorata in piazza Santo Stefano
e ho dato un bacio lungo una notte in piazza Maggiore,
e ancora
ho pianto forte sulla scalinata salvifica di San Luca.
Mi sono tirata per terra sotto a un portico indefinito,
mi sono sbucciata un ginocchio
ed il sangue che ne è sgorgato
mi ha addolcito la lingua amara del tuo addio.
Ho sigillato il mio cuore con la ceralacca e l’ho spedito in Spagna.
Attendo sempre una tua risposta,
quando il cielo alle tre è già tinto di giorno.

Merito specifico di questa voce è anche la invenzione, fuori dai toni più estremi in cui a volte si perde lungo vie conosciute, di metafore che sorprendono, come ad esempio in quest'ultimo verso:

Il cuore scucito
di vento
gli occhi stinti
di pianto
e lo stomaco è un cinema d’estate.

E alla fine di uno squadernato armamentario di baci, di brame, di malinconie e di consunzioni, raccolte sotto un titolo non certo lieve come Di morte e altre incombenze, ecco che con un gesto di suprema grazia, tra infanzia e grazia antichissima, la poetessa ci lascia questa visione, che rompe il giro, appunto, delle incombenze:

E la nostra finestra sul mare
è un quadro di pastelli di cera...
ma noi ci affacciamo
e vediamo in lontananza anche i delfini.

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