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“Dove sono gli anni” di Gian Mario Villalta

di Davide Rondoni

Gian Mario Villalta, Dove sono gli anni, Garzanti 2022

E poi viene il tempo per il poeta di parlare del tempo. Viene come una necessità, una sconfitta e una rilettura degli ardori, una accettazione delle brume, una ricapitolazione senza rancore. Viene il tempo per il poeta di far emergere, portare in luce il tempo, quel che sembrava chiaro e invece era un addensarsi lieve, opaco, per rivelarsi ora un accecante mistero. Così accade nel libro, ritmato e potente, di Gian Mario Villalta. Viene il tempo in cui l'argomento è il tempo e la Natura - sede del tempo e di altro dal tempo - e la migrazione dell'io in essi, dove si perde e si ritrova perdendosi.

 

"Se penso al tempo mio diventa ora di tutti

- il tempo - se mi perdo nel tempo ridivento io"

 

Il libro esce da una specie di ruminazione su quanto si vede nel piccolo e nel grande (nella casa, nei suoi dintorni, nella figlia, nelle figure solite oppure nel svanire delle morti, nella società mutante, nei segreti delle neuroscienze, nelle vicende spesso incomprensibili del vivente). Villalta rivela qui il sul stare al mondo come uno stare multiforme: accanto all'impegno, duro, accanito, quotidiano, ecco un altro osservatore delle cose, e di sé, e un altro osservato, in un inseguimento selva - quasi caproniano, come caproniani appaiono certi testi brevi ricorrenti, certe incursioni visitate da uno spirito zanzottiano non solo per la lingua, balbettante e dialettale...

Esce, questa parola tessuta del basso continuo della prosa e dalle screziature della poesia, come un diario tra qui e altrove, con il richiamo ricorrente di chi, di quale voce, che in dialetto fraterno chiama il poeta talora, e dice il tu che invece fatica per tutto il libro a fissarsi in io, perché il tempo lo lavora, dai giorni della maglietta a righe fino ai giorni dei viaggi in macchina con Mario (Benedetti) fino agli esili nelle notti, in luoghi consueti e in luoghi lontani. Quella voce che -intermittente tra sezione e sezione - sa che il tempo "sgranfà", e che si diventa qualcosa che si sa e non si sa. Libro e lingua che procedono vorticose e trascinanti, per sezioni e richiami fino all'ultima "solitudine della specie dominante", visione del presente e anche sempiterna preghiera o chiamatela come volete a lei, Natura, con la maiuscola, lucreziana certo e leopardiana, e sì anche luziana e zanzottiana, lei insomma - "che cosa vuoi, che reclami?" che confonde i suoi confini in noi "inumana natura umana"; libro e lingua dicevo, questi di Villalta che non temono di farsi compianto unanime sulla specie inglobando pure lemmi e lessici ultrattuali nella pasta però sempre tenera di una lingua madre, e non temono, libro e lingua, di farsi testimoni, ma quasi, per così dire, per difetto, per umiltà, o più esattamente, per consapevolezza di mortalità, testimoni di un atteggiamento. Quello che Leopardi ne "La ginestra" chiama esser "mendìco", al contrario di ogni orgoglio, di ogni vanto. Di ogni dominio, anche nel momento stesso del suo inevitabile esercizio, svuotato tale dominio del suo senso per diventare atto di una più grande resa. Una esagerazione, questo libro, finalmente, una esagerazione di misura e dismisura. Non solo per la millimetrica costruzione, per la pulizia del dettato e per la malleabilità di una lingua ospitale. Ma per la consegna, per la dedizione, per la continua messa in discussione di sé sincera e, se pur pudica, spudorata. Ma non della spudoratezza biografica o presuntuosa di molta, troppa, scrittura poetica odierna, bensì, se esistesse la categoria, di spudoratezza ontologica.

Infatti, la ferita mortale abita il dire di Villalta, ne abita il cuore infante e millenario, abita il canto e anche il suo contrario mormorato e affranto, e urge, perentoria, a una interrogazione continua, a non restare soddisfatta di sé. E se pur in una comunione con tutto il vivente, compreso l'orso polare alla deriva su un moncone di banchina separata da fatali scioglimenti, quella interrogazione o estrema prece (non sopporto la inesistente separazione tra preghiera cosiddetta laica o religiosa, perché differenza non vi è) lascia infine quasi lacerto di sé nella pagina estrema. Dove il tempo torna, per la "voce limite", voce "di ultime/ chiamate residua", condensato nel suo verbo più arreso e umile e alto: "...sia".

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