di Davide Rondoni
Guido De Simone, Come i fuochi di settembre, Marco Saya edizioni
Sospeso tra elegia e meraviglia il secondo libro, esile e sonante, di Guido De Simone, testimonia la presenza di una voce poetica autentica, legata come tralcio di vite ai filari sicuri della maggiore tradizione Novecentesca italiana, dai Penna ai Montale. E questa che potrebbe sembrare una specie di devozione a una lingua distillata e chiara, a un verso capace di evocare sonorità che potrebbero risultare "vintage" come si dice oggi, è in realtà la potenza, la forza di questa presenza poetica, che certo non cela il tributo e anche l'arieggiare motivi (tematici e musaici) esperibili in quei maestri, ma si esprime in modo persuasivo in una sorta di sfida affidata a minime variazioni, una sfida alla verità di una esperienza:
"...Tu non badare a chi mi siede
accanto: guardo solo te, guardo te soltanto"
In tale forma quasi arresa della poesia a quanto di essa già conosciamo, "senza infingimenti e pose" come nota Stefano Carrai introducendo, si gioca in realtà una partita altissima.
Può darsi il senso di un'esperienza viva, attuale, in una forma che sia cauta, o meglio rispettosa di un lavoro secolare da cui ha senso scostarsi solo in presenza di una vera necessità formale (quella, per intendersi, che ad esempio mosse un Luzi a sfrangiare il discorso in domande o un Testori in dolcissime violenze, o un Caproni in asciuttissime profondissime e ritmate questioni, tutti, si badi, estremi debitori di voraci e fertili tradizioni secolari)?
Insomma, in questi versi, che solo chi sbaglia potrebbe giudicare soddisfatti di un andamento già prestabilito, può darsi che si giochi un'altra partita da quella squisitamente e a volte sterilmente formale si è giocata da parte di molte di coloro che già Carducci ironico chiamava gli "odiernissimi" poeti. In De Simone vibra un altro genere di forza, quella di chi cerca la espressione di una verità di esperienza e di visione calandole nel deposito di una lingua e delle sue forme così come una lingua poetica già messa alla prova della verità d'altri si offre. Intendo che non a caso negli eserghi e nei rimandi non vive innanzitutto un omaggio formale, bensì una sintonia umana ed esistenziale con le voci (quella malinconia, quella stupita resistenza, quella raccolta meraviglia) di un Penna o di un Montale. De Simone costruisce il suo personale canzoniere accostandosi senza alterigia a quelle voci, come estremo compagno di viaggio, di un viaggio non meno intenso umanamente, di sospetti d'amore, di malinconie, di abbandoni, di scorci miracolosi.
La voce di De Simone non cerca forzature, se non quelle interiori, legate a una ricerca di senso e di riposo dell'anima in una curva di giovinezza verso la maturità. Pare che mentre il tempo addensa le sue sfide, i suoi attriti, le sue caligini, De Simone si concentri, toccando le corde della sua amata poesia italiana, a vedere quali siano le figure del suo destino. Chiarendo, e ce n'è bisogno, che la poesia mai ha come scopo se medesima (come appare a volto nell'affoltarsi di visibilio e visibilità dei poeti della sua età, dove tra poesia e esercizio di narcisisimo i confini si fanno labili) ma la verità della esistenza, franta e riflessa in tante verità dei momenti e delle circostanze. Così, in libri come questo, la poesia si conferma arte umile, difficile e alta, capace di frequentare con la parola zone del vivente che ad altri linguaggi e ad altre arti sfuggono.