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La figura materna e l’amore in “Madrebianca” di Rosalba de Filippis

di Evaristo Seghetta Andreoli

Rosalba de Filippis, Madrebianca (prefazione di Sergio Givone), Passigli Poesia, Ottobre 2022
Raccolta di 55 poesie in versi liberi

Nel leggere i testi di questa raccolta sono ritornato indietro nel tempo, alla mia fanciullezza, quando mia madre mi parlava dei suoi genitori che non c’erano più. A volte piangeva nel raccontare e io, che iniziavo a comprendere il senso della morte, le dicevo: “mamma ma tu non morirai mai…è vero?”, come avrei voluto credere in quella risposta affermativa! La mente umana non riesce mai a smaltire il lutto perché la mamma, per definizione, non può morire. Rosalba de Filippis non sfugge a questa regola e descrive forse il più duro dei dolori, affidando alle sue liriche piene di amore viscerale i sentimenti filiali e al contempo materni quasi in una specie di osmosi madre-figlia (Ieri siamo nate, mamma/ entrambe due ventri/ e due figlie/ ci siamo scambiate i cordoni/ a succhiare la linfa./ Oggi siamo morte, mamma/ mentre tu te ne vai/ io viaggio con te su quelle pareti/ siamo morte e poi vive/ ogni giorno/ anche dentro lo specchio:/ tu svanisci/ io esisto.). L’autrice si appropria della figura materna e, nel contempo, dona sé stessa alla madre, cercando ancora quell’unione fisica iniziata nel liquido amniotico e terminata nel liquido delle lacrime.

Così Rosalba passa ad analizzare i luoghi del ricordo e gli oggetti appartenuti alla madre che non c’è più. Oggetti una volta quasi animati di vita propria, certamente vissuti, oggi silenti, abbandonati nel buio della casa chiusa, morti anch’essi, quindi inesistenti se non riportati in vita dal pensiero. “Esse est pércepi” sosteneva Berkeley, l’esistenza sta nell’essere percepiti e “…niente esiste al di fuori dalla mente…”. Di ciò ne abbiamo l’esempio vivo (Nella tua casa gli oggetti/ sono in silenzio da mesi/ fermi nel solito luogo/ e nel buio si sentono soli/ non sanno che dire a quei muri…).

La mente umana, per il prodigio di cui è capace, riporta in vita anche colei che con la vita ha chiuso e così si succedono i ricordi come nello sviluppo di un rullino fotografico, un rullino lirico che con grazia e delicatezza dà anima a quel corpo ora sepolto. Immagini marginali, episodi flash a cui, magari in vita, non si dà peso e ora sempre più determinanti, fondamentali nel culto del ricordo. I vestiti che diventavano sempre più grandi nella proporzione inversa del corpo che la vecchiaia rende sempre più piccolo, di quella donna madre e poi anche figlia dell’autrice stessa (Sei piccola/ signora con la nuca delicata/ ti pettino per farti ancora uscire/ i tuoi vestiti crescono ogni giorno/ per te così minuta...). La casa come punto d’incontro, luogo sacro che unisce il ricordo di una comunione di vita, luogo da cui si esce facendosi il segno della Croce (Eppure/ uscendo/ mi segno./ La casa è più sacra/ lasciata in silenzio).

C’è nelle liriche di de Filippis qualcosa che le lega alla tradizione arcaica, al culto dei morti proprio delle civiltà italiche, e anche se non viene esplicitata tale connotazione, essa emerge nella struttura del pensiero lirico quasi come dolcissime epigrafi. I testi, infatti, sono tutti brevi ma densi di significato, di dolore struggente, di abbandono e desistenza di fronte alla morte, ma con una certa fondata speranza sulla possibilità di rivedersi, magari di riabbracciarsi, in quanto il ricordo è sì importante, ma necessiterebbe della materialità, dell’aspetto tattile nel rapporto madre-figlia. Il tema di poter instaurare un colloquio con le persone care defunte è un tema antico che Omero avvia nell’Odissea, quando descrive l’incontro di Ulisse con la madre a cui avrebbe voluto parlare, ma non ci riesce, perché la legge dei mondi separati, quello dei vivi e quello dei morti, si riduce tutta a sfumature oniriche, a sogni emozionanti che svaniscono in un nonnulla, lasciando in bocca un sapore amaro come il rivedere quelle persone, quasi sfiorate, che si dissolvono, si occultano come creature palustri (Madrebianca/ non di marmo o pietra levigata/ madre invecchiata/ riaffiori dal tuo sonno all’improvviso/ e fuggono le code dei tuoi sogni/ come girini sotto i sassi bianchi). Ecco, quello di Rosalba de Filippis è un dialogo onirico con la madre che, come la madre di Ulisse, Anticlea, non prevede che essa risponda; il contatto è puramente visivo e frustrante per l’intangibilità dei corpi. Allora il ricordo supplisce con una tenerezza che non ha pari (Ci siamo sovrapposte come foglie/ nell’umido del bosco/ quando è autunno/ mani contro mani/ labbra contro labbra/ madri e figlie/ e figlie con le madri/ siamo madri/ con il mento sulla mano/ e aspettiamo).

Nella lirica “non vorrei il tuo ritorno”, la poetessa esprime un concetto che colpisce profondamente specie chi abbia già vissuto analoga esperienza dolorosa, cioè quello che nell’ipotesi inverosimile in cui anche se si potesse riportare in vita la madre anziana, non lo si farebbe perché essa vivrebbe nuovamente per troppo poco tempo e il dolore per la nuova morte si ripeterebbe in tutto il suo strazio (Non vorrei il tuo ritorno/ sarebbe per poco/ e mi dovrei piegare/ a salutarti ancora/ sulla soglia/ la scarpa storta sopra il pavimento./ E non potrei di nuovo cancellare/ l’immagine di te che ti allontani/ sarebbe troppo/ anche per la figlia più celeste).

I versi di Rosalba de Filippis sono privi di ogni retorica, leggibilissimi e nitidi, ritmici, musicali con rime e assonanze che adempiono a questo scopo, ma il connotato che rende piacevolmente originale la raccolta, a mio avviso, sta nel fatto che la lettura dovrebbe essere eseguita con tanta delicatezza, anzi sussurrata: ecco questa è la poesia del “sussurrare”. La punteggiatura è scarna, le virgole non compaiono quasi mai per non frenare lo scorrere del suono delle parole accuratamente scelte. Scorrono, infatti, inesorabilmente i versi, come le lancette dell’orologio che scandiscono i secondi della vita, purtroppo anche gli ultimi indelebili nella mente di chi resta. Quel ticchettio secco delle piccole lance che, per una sorta di analogia etimologica, hanno l’effetto “lancinante” proprio della sofferenza di chi resta, quando avviene la cesura temporale che separa l’esistenza dalla sua fine mirabilmente scandita, in tutta la drammaticità, dalla narrazione di ciò che era e che produce ancora i suoi effetti. (E le lancette/ le sento cantare sicure/ quando il silenzio le tiene/ con braccia di vitalba/ fin quando mi volto nel sonno/ e ritorna la conta indistinta/ è come venire a trovarti/ e come parlarti di nuovo). Ci si illude di mantenere in vita una ragione di vita, invano, perché la realtà di quell’addio senza ritorno è liricamente spietata (E tu muori/ nel luogo di lana e maniglie di ottone./ E non torni non torni non torni).

Un pensiero su “La figura materna e l’amore in “Madrebianca” di Rosalba de Filippis

  1. Queste parole di Evaristo sul libro di Rosalba sono sacre, come lo è il contenuto del libro, che ha tentato di costruire un altare x la madre e alla fine questo altare morale è stato edificato. Il tema principale impagina un dialogo- monologo della figlia con la madre. Perché nella vita a qualsiasi età ci si sente figli, pur se si ha una propria famiglia. È questo sentire che intavola il culto dei morti.
    Perciò Madrebianca è un libro necessario.
    Francesco Varano

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