Monia Gaita prosegue nella sua difficile e profonda ricerca di una poesia ricca ed essenziale, aperta alle ventate di un linguaggio fertile e febbrile. Una ricerca che trasfigura la materia biografica in un dato quasi musicale, ritmico e ne cerca, per via di invenzioni e deviazioni il profilo profondo e resistente dell'acquisto esistenziale, che sia pena o meraviglia. Una poesia che offre a volte il senso di certe elaborazioni del vetro di Murano, come se nelle remote valli dell'Irpinia si celasse un fuoco, un'officina che sogna e crea cose che hanno aria e trasparenze e cristallo veneto... Una strana, sorprendente combinazione di tellurico e prezioso.
di Davide Rondoni
Nessuna titubanza
Guardare schiudersi la porta del mattino,
le nuvole e le loro succursali
confondersi alla ruggine dei rami,
il vaso del basilico infilato nella giacca dell’autunno.
Avverto un lieve capogiro
a estrarre come un foglio dalla tasca
questi anni:
non ho nessuna voglia di indossarli,
mi stringono sui fianchi
stupiti di trovarmi ancora in piedi.
Ignoro a quanto ammontino le perdite.
Vorrei cospargerle di nafta, farne fuoco.
Ma a regolare i conti con gli sbagli
declina la ragione e il vuoto sbocca
dove i perché affondano in un solco.
E intanto vivere
nella coscienza mezzo fradicia dei giorni,
le gambe sciolte del non più sperare
e al punto in cui la scelta si biforca
— nessuna titubanza —
percorrere una strada.
Ti lascio un bacio
Ti lascio un bacio ai piedi dell’albero,
lo incollo a cucitura stretta sulle foglie.
Giuro sul crocefisso del presente,
amerò altro:
la borsa, il cielo, la sedia,
il brusco fumigante degli spini.
Non voglio più farmi debole,
provare la solitudine del reduce.
Non voglio più venire uccisa e derubata.
Abiterò il santuario dell’uguale.
Nessun campanello d’allarme
legato intorno al collo.
Non franerò fra i tuoi grassi rovi.
Si abbatteranno le passioni
come pali di salice.
Mi lascerò sorprendere dalle facce note.
Emergerò
da tutto quello che mi aveva divorato
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