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“L’apocrifo nel baule” di Michele Brancale

di Davide Rondoni

Con "Apocrifo nel baule" (Passigli 2019), Michele Brancale sposta la linea della sua poesia da sempre impegnata sul difficile confine di una epica non solo personale ma anche civile a un livello più oscuro ed estremo. Controfigura o meglio prosecutore di un manoscritto paterno di poesie "peccato di gioventù" il poeta viaggia stavolta nei ricordi del paese, Spadarea, e di un tempo di infanzia e perenne nei suoi acquisti principali. Così la raccolta lontana dal cadere in una ovvia memorialistica tiene la corda tesa della indagine esistenziale e trova in figure a metà tra ricordo e invenzione i suoi passi, le sue scoperte.

In testi asciutti e forti, come "La voce", o in testi più mossi e teatrali come "Il ficcanaso" la notte o l'osteria divengono il teatro dove la urgenza della vita, quella che sospinge a una specie di guerra mai finita veramente, o quella che costringe gli "dei" commedianti a cambiare status e dover pagare i pasti, si presenta nella sua dura necessità. Ma se da un lato tale necessità ha la durezza inappellabile di fatti storici e di passaggi personali, dall'altro ha anche la meraviglia di miracoli (come nella poesia intitolata "Fiera di Orsoleo" dove a un'apparizione della Vergine si chinano orsi, leoni, cavalieri e briganti) o di segni semplici del risorgere della vita nel borgo, come in "Primavera".

Il libro porta il lettore su e giù per nostalgie e desideri, in una lingua piana, sempre accorta e ornata di un decoro semplice, non solo segno del calabro bagnato in Arno, ma di un senso civile e comune del compito del poeta. Che per Brancale mai è votato a costruire il proprio mausoleo o autoritratto ma sempre, anche in questo caso dove la materia biografica si dispone lungo tutto il libro in vario modo dissimulata o denunciata, appare teso a offrire gli elementi di un discorso comune, civile nel senso più ampio e intimo del termine. Lo fa da poeta, con gli scarti di una immaginazione pronta a deviare ("La sostanza di te assumeva forme/ diverse, talvolta lunari...", in "La serenata") o con la pazienza dello scavo, quella che fa dire che non si "ferma il tarlo dell'incompiuto, / dal quale emerge il sentimento di Dio" (in "All'amico"). O che la "voce del mondo si fa sentire/ di sera...".

Lo fa con gesto umile e quasi ritroso anche nel momento in cui si espone. Restando in quel bilico, tipico dei poeti autentici, in cui la pronuncia di proprie vicende o memorie non è proposta di sé, ma di quel che Luzi chiamava "il giusto della vita". A cui obbedire e da onorare sempre, anche quando schianta il cuore, apre ferite nei ricordi e cerca in ogni poeta vero, appunto, la sua personale pronuncia...

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