nota al libro di Giancarlo Pontiggia
L’ultima raccolta di Anna Buoninsegni, Quando si compie la danza, di prossima uscita nella collana Ancilia per i tipi di ‘puntoacapo’, è un libro intenso, potente, ricco di vibrazioni, di azzardi: è la scommessa con la vita, come può nascere dalla sofferenza più allucinata e dal senso di fine che prima o poi ci tocca tutti, indistintamente. Stare dentro alla metamorfosi provoca dolore, e qui c’è la storia di un naufragio, quando l’universo degli affetti si infrange e tutto viene falciato. Le ore si incidono come coltellate «negli occhi chiusi del mondo», e nascono le domande estreme: «dove vanno gli oggetti amati?»; «dopo di noi chi saprà / e continuerà il parlare che ci somiglia?».
Chi scrive deve fare l’esperienza dell’assenza, del silenzio, della solitudine. Ma questo non è solo un reportage della perdita; Anna, che conosce bene la parola per averla negli anni attraversata e resa in versi fondanti, sa che la nominazione del mondo, pure ferita e disarmata, crea un nuovo perpetuo divenire. E nel cupio dissolvi, nel sacrario del lutto la trama dei giorni continua a rilucere, «fosforesce», «trasale in parola», spalanca «ripostigli d’azzurro», dialoga con le anime dei «venienti», sente – richiamando la lezione ermetica della Tavola Smaragdina – la profonda unità delle cose del mondo. Perché «destini e ferite fondano speranze / dicono quel che prima avevano pensato», invertono la rotta dei tempi, ostinatamente si protendono nell’abisso di ciò che ancora non è, «per cambiare il mio e il tuo futuro».
QUANDO SI COMPIE LA DANZA
(si è innestata la pianta del dolore)
si è innestata la pianta del dolore
sul taglio precedente
ne è fiorito un rigoglio crivellato
da brevi innaffiature
metodiche allo sfinimento
(siamo strutture d’aria)
siamo strutture d’aria
sciami di polimeri che si attraggono
così è la vita delle creature alate
solitarie sull’abisso sintetico
assi di vetro nel cielo
quando cadono fragori epocali
sono capostipite alla mia famiglia
sono il vicino di casa rimasto
sono già tramontato
attimo per poco ancorato ai secoli
(dove vanno gli oggetti amati)
dove vanno gli oggetti amati
abitati
i mobili dai fiati minuscoli
nell’accudito odore dei giorni?
dove vanno le morti bianche
e quelle rapide
rapite
le mani disossate dopo l’altrui?
tutto l’unisono del canto
quando moriamo?
l’impazienza dei libri
ci abbandona
in fuga da un cumulo di respiri falciati
dopo di noi chi saprà
e continuerà il parlare che ci somiglia?
(deve esserci da qualche parte)
deve esserci da qualche parte
uno spiraglio
una crepa nel battito che separa
vivi e morti
sentiamo carezze
voci intorno
ma non le tocchiamo
soffi bianchi
richiami lontani
sguardi di ombre
e non riusciamo a vedere
sento lo sfioro del tuo viso appena
che converte il sonno in buonanotte
ma non ho il tattile odore sulla pelle
dio della separazione
ti prego
fammi tornare dove possa nutrire il mio abbraccio
di lui
(i gatti arruffano il pelo randagio)
i gatti arruffano il pelo randagio
stringono le fessure del vento
ognuno sopporta la notte in maniera diversa
qualcuno sparirà
qualcuno non tornerà
i poveri di niente
non hanno riparo
forse non vogliono
sono disposti alla perdita del talento
un baratto alla tremenda libertà
guardo fuori
le altitudini del buio diventare una sola
le coltellate delle ore
negli occhi chiusi del mondo
(il futuro ci guarda)
il futuro ci guarda
prende appunti
pensa a noi
saremo ciò che dovremo
mezzo secolo dopo
ciò che una parte di noi
avrà preso a dimora per scomparire
(la grazia è una guerra strepitosa)
la grazia è una guerra strepitosa
che si gioca sul podio del corpo
a distanza di anni
ha lo stesso implacabile profumo
lo stesso ancestrale adattamento
la grazia non concede interviste
e indossa linee imperfette
nel suo guardaroba
trionfa ad altissima concentrazione
l’unica leggerezza che sopporta è l’attesa
(dicono che la morte pesi 21 grammi)
dicono che la morte pesi 21 grammi
che la differenza dell’anima
soffiata via
sia una piuma bianca in un paese di neve
allora spiegami
padre mio
perché ha il peso di un incendio
questo tuo essere senza corpo
appeso al respiro
e perché la lontananza di te
è il carceriere
che ogni giorno porta in braccio
la mia solitudine
(vengono in forza le pattuglie dei ‘no’)
vengono in forza le pattuglie dei ‘no’
nell’inferno della specie condominio
le pattuglie delle passioni tristi
che gridano ‘è finita siete stanchi prigionieri’
avrei voluto certi modi di fiamma accesa
per stare al mondo
ondeggiante dormiente
per fare poco e meglio
avrei voluto i ‘si’ a moltiplicare le forze
a trovare cattedrali di pietà favolosa
ripostigli d’azzurro per i malati senza nome
(se perdi l’anima)
se perdi l’anima
il protocollo
la ritrova archiviata
magari nel settore manutenzioni
anziché in capitoli d’intesa spirituale
per modi più precisi
per abitare la scena
il protocollo cataloga numeri e gesti
nel sistema passante
dei rifugiati morti
nell’ultima mutazione planetaria
(che i morti non dimentichino)
che i morti non dimentichino
che non dimentichino di sorvegliarci
nella nuda vastità della vita
che siano loro a vegliarci senza lasciare
cadere una carezza
che i morti non lascino sola
la nostra mano
mentre bussiamo alla porta
che non si spalanca
che i morti ci guardino nello specchietto retrovisore
per capire che siamo con loro
che i morti non dimentichino
quanto li abbiamo aspettati
(forse i poeti hanno questo torto)
forse i poeti hanno questo torto
di non passare inosservati
di essere incollocabili nel silenzio
al loro posto i versi continuano
ad ascoltare e qualcuno parla con toccante curiosità
forse i poeti hanno il torto delle parole
accese sul funerale
forse il brusio dei versi
letti da un migliaio di noi
li tiene svegli nell’eternità
li fruga nei lineamenti dei pensieri
forse i poeti non si congedano mai dai rapitori
forse i poeti non muoiono mai abbastanza
per vivere nelle parole che ci consumano
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