Michele Porzio, Il canto della terra, La Nave di Teseo 2025
di Davide Rondoni
I libri come questo di Michele Porzio, edito da La Nave di Teseo col titolo "Il canto della terra" sono irriducibili, non riesci a maneggiarli con calma. Sia perché nella loro forma in gran parte poematica vanno in direzione contraria all'evanescente rapido frammentismo oggi corrente, anche se qui non mancano poesie brevi e belle come "Il gelsomino", sia, e ancor di più, perché vedi che il libro è frutto di una lotta lunga una vita. E non tanto lotta, per quanto acerrima, per calibrare versi che abbiano andamento non dimentico del dettato classico della lingua, bensì lotta estrema, esistenziale e fatale sul terreno del senso di una esistenza intera. Tanto da accompagnare con una sorta di confessione post-fazione la già gran copia di versi e poemetti dove si riaffacciano e riprendono parola da Faust a Hölderlin, da Rilke a Celan, da Bach a compositori di musica contemporanea.
Libro-sfida dunque, che non accetta pacate riflessioni stilistiche o letterarie. Pur se proprio in una sorta di rimpianto e difesa dei valori alti di letteratura e di stile pare impegnato il poeta divenuto tale dopo un percorso autorevole di studioso e filosofo della musica. Ma, appunto, tale sfida va intesa nel suo nucleo più vivo, sfuggente a ogni sociologia della cultura che "tranquillamente" potrebbe ratificare la cosiddetta "perdita" di tali valori, solo compiendo una piccola ricognizione tra case editrici, redazioni e università. E il nucleo vivo in cui si cala - con l'intera sua storia di figlio di genitore grande letterato, compagno di una scrittrice raffinata, di studioso e di flâneur parigino, e appunto di poeta squisito - è quello di una sfida non per la salvezza della cultura ma della vita e del suo significato. E si potrebbe dire forse azzardando - e riecheggiando certe parole di poeti amici suoi (e miei) come Loi e Mussapi - che la poesia proprio come insegna Dante è il segno della sconfitta di ogni cultura che non addivenga a esser epica e poetica. Segno di sconfitta tanto quanto garanzia di rifondazione.
Libro epico, dunque, questa sorta di Porzieide, che porta con sé i nodi e certe figure della cultura Otto-Novecentesca (la vogliamo chiamare "moderna"?) e la ravviva con la sua estrema interrogazione. E la inchioda per così dire a dover bruciare - cita non a caso i Quattro Quartetti di Eliot - come rosa nel fuoco per offrire uno splendore che sia il medesimo dell'Origine. O che sia ancora contemplazione dantesca di nuovo infante.
L'epica a cui Porzio chiama la poesia, e che nella poesia trova ambito e slancio, non è un allontanamento lungo secoli o lungo gli scaffali. È un ritorno. La forza di certi guerrieri non è la conquista ma la nostalgia.
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