Traduzioni a cura di Giovanni Rapazzini De' Buzzaccarini
Cinque poesie di Luis Alberto de Cuenca, uno dei massimi poeti in castigliano viventi. Quattro sono tratte da tre raccolte diverse, una è inedita. Leido en Plutarco e Himno órfico a Zeus vengono dalla raccolta Después del Paraiso, Caverna Perpetua da Cauderno de vacaciones, mentre El graffito de Artistónico è tratta da El secreto del Mago.
Boecio y la Filosofia è un testo inedito apparso per la prima volta nell’antologia che raccoglie le poesie di Cuenca ispirate al mondo classico intitolata Los dedos dell’Aurora e pubblicata nel 2024 nella collezione Vandalia della Fondazione Manuel Lara, da cui tutti questi componimenti procedono.
Si dà il testo originale e in traduzione.
I
Leído en Plutarco
Las almas de los hombres, rodeadas
de sus cuerpos, deseos y pasiones,
tienen difficil comunicación
con los dioses, de no ser con la ayuda
de la filosofia y a través
del lenguaje divino de los sueños.
Pero cuando esas almas, separadas
Del cuerpo y sus deseos y pasiones,
habitan la región desconoscida,
impenetrable, pura, misteriosa
donde impera la muerte, no hay obstáculo
para hablar con los dioses, compartiendo
con ellos un amor y una belleza
que no son patrimonio de los vivos.
I
Letto in Plutarco
Le anime degli uomini, circondate
dai loro corpi, desideri e passioni
hanno una difficile comunione
con gli dèi, se non con l’aiuto
della filosofia e attraverso
il linguaggio divino dei sogni.
Quando però queste anime, separate
dal corpo e dai desideri e dalle passioni,
abitano la regione sconosciuta,
impenetrabile, pura, misteriosa
dove impera la morte, non c’è ostacolo
per parlare con gli dèi, compartendo
con loro un amore e una bellezza
che non sono patrimonio dei vivi.
La prima poesia selezionata è ispirata, come suggerisce il titolo, a un passo di Plutarco. Il Plutarco delle iniziazioni, il Plutarco dei misteri che ci racconta con la inconfondibile voce poetica di Luis Alberto de Cuenca, che vivere contemplando le belle cose attraverso la sofferenza della sapienza e il suo amore, ci permette di vivere in paradiso, presso gli dei, come quando siamo morti. E che la morte ci farà liberi dalle distrazioni, potremo conversare con gli immortali senza timori e attaccamenti.
II
Caverna perpetua
Come todos los hombres, vine al mundo
a recordar, porque el conocimiento
es tan solo memoria, remembranza,
reminiscencia de otra realidad
mejor, más prestigiosa y más estable,
de la que un día fuimos desterrados.
La vida es perseguir inútilmente
la fuente primordial, donde confluyen
todos los hilos de agua del recuerdo,
rozar casi sus gárgolas y hundirse
en el suplicio de una sed eterna.
Tú, madre mía, soledad, aún puedes
salvarme de este olvido que amenaza
con sembrar de silenzio las llanuras
sonoras de mi alma. Novia mía,
hermana soledad, dime qué hubo,
o si hubo algo, digno de memoria,
fuera de la caverna en la que vivo.
II
Caverna Perpetua
Come tutti gli uomini, venni al mondo
per ricordare, perché la conoscenza
è davvero solo memoria, rimembranza,
reminescenza di un’altra realtà
migliore, più prestigiosa e più stabile
di quella in cui un giorno fummo esiliati.
La vita è perseguire inutilmente
la fonte primordiale, dove confluiscono
tutti i fili d’acqua del ricordo,
quasi sfiorare le sue garguglie e annegare
nel supplizio di una sete eterna.
Tu, madre mia, solitudine, ancora puoi
salvarmi da questo oblio che mi minaccia
seminando di silenzio le pianure
sonore della mia anima. Mia ragazza,
sorella solitudine, dimmi cos’è successo,
se è successo qualcosa, degno di memoria
fuori della caverna in cui vivo.
La seconda poesia è di ispirazione platonica. La caverna del settimo libro della Repubblica viene presentata come nostra unica condizione, ma anche trasformata nella memoria, principale fonte di conoscenza; Mnemosyne, madre delle Muse, ricordo, etimologicamente entrare dentro al cuore. L’unico scopo della vita è il ritorno alla fonte primordiale, attraverso la mistica del ritmo cardiaco, dedicarsi all’anamnesi di una solitudine salvifica, qui invocata come divinità per un battesimo che regali l’amore per la sete eterna e fondi la certezza in una verità del silenzio, seminato dentro l’anima.
III
El graffito de Aristónico
para Chus Visnor
Heródoto nos cuenta cómo el revestimiento
exterior de las grandes pirámides de Guiza,
lo mismo que los célebres Colos de Memnón,
se econtraban entonces cubiertos de graffiti,
pintados por los griegos que viajaban a Egipto
en busca de respuestas que los grandes filósofos
de Grecia no sabían dar a sus compatriotas.
Responder a preguntas sin respuesta era algo
privativo de Egipto, de manera que aquellos
turistas primevales, tras gastarse sus dracmas
en videntes y mago a cambio de liturgias
y letanías vacuas para alejar la muerte,
dejaban en la piedra grabados sus poemas,
sus promesas de amor, sus angustias más íntimas,
todo lo que traían dentro del corazón.
Muchos de esos graffiti se nos han conservado.
Entre ellos el que, con mano temblorosa,
dejó el viejo Aristónico en la pierna derecha
de uno de los Colosos, y que decía así
en perfectos hexámetros (y seguirá diciéndolo
hasta el fin de los tiempos): “Aquí estuvo Aristónico,
y aquí estará mañana, cuando Tebas no sea
más que un monton de ruinas en el medio del desierto.
La trinidad egipcia me concedió la vida
eterna, y desde entonces he cambiado de nombre
muchas veces. Tan pronto viajo desde el pasado
a este presente, como me proyecto a un futuro
donde yo solo existo. Osiris, Isis y Horus
olvidaron la fórmula de conmudar mi pena
y volverme mortal. Mi nombre verdadero
os lo he dicho: Aristónico. Pero lo merezco.
He obtenido a lo largo de mi vida una única
Victoria, y esta ha sido contra la muerte. Nada
puede liberarme ya de un triunfo que conduce
a la peor pesadilla: vivir yo eternamente
mientras todos los hombres y mujeres del mundo
van muriendo y dejándome más solo cada día.
Maldita sea la hora en que pedí a la santa
Trinidad que me hiciese inmortal! Nada puede
ser, a la postre, más cruel y doloroso
que la inmortalidad para el género humano”.
III
Il graffito di Aristónico
a Chus Visor
Erodoto ci racconta che il rivestimento
esterno delle grandi piramidi di Giza,
come i celebri Colossi di Memnone
erano un tempo coperti di graffiti,
dipinti dai greci che viaggiavano in Egitto
in cerca delle risposte che i grandi filosofi
di Grecia non sapevano dare ai loro compatrioti.
Rispondere a domande senza risposta era cosa
particolare dell’Egitto, tanto che quei
turisti primevi, nello spendere le loro dracme
in veggenti e maghi a cambio di liturgie
e litanie vane per allontanare la morte,
lasciavano incise sulla pietra le loro poesie,
le loro promesse d’amore, le loro intime angosce,
tutto ciò che avevano dentro al cuore.
Molti dei loro graffiti si sono conservati.
Tra questi quello che, con mano tremante,
lasciò il vecchio Aristónico sulla gamba destra
di uno dei Colossi, e che diceva così
in perfetti esametri (e continuerà a dirlo
fino alla fine dei tempi); “Qui stava Aristónico,
e qui starà domani quando Tebe non sarà
più che un ammasso di rovine nel mezzo del deserto.
La trinità egizia mi concesse la vita
Eterna, e da allora ho cambiato nome
molte volte. Viaggio così rapido dal passato
a questo presente, come mi proietto in un futuro
dove esisto solo io. Osiride, Iside e Horus
dimenticarono la formula di commutare la mia pena
e rifarmi mortale. Il mio vero nome
ve l’ho detto: Aristónico. Però non lo merito.
Nel corso della mia vita ho ottenuto un’unica
vittoria, e questa è stata contro la morte. Nulla
può liberarmi dal trionfo che conduce
All’incubo peggiore: vivere eternamente
mentre tutti gli uomini e le donne del mondo
muoiono e mi lasciano più solo ogni giorno.
Sia maledetta l’ora in cui domandai alla santa
Trinità che mi facesse immortale. Nulla può
essere, a posteriori, più crudele e doloroso
dell’immortalità per il genere umano.
Qui attraverso il racconto di Aristonico, ironicamente il migliore dei vittoriosi, vediamo la vena epica fondamentale nella poesia di Luis Alberto de Cuenca e per lui nella poesia in generale, se come in Poeta malgré lui scrive, la poesia epica è l’unica vera. La vicenda di Aristonico, la cui unica vittoria contro la morte è beffarda e rivela una condanna a vedere svanire tutti i propri affetti, a trovarsi in solitudine davanti a un tempo senza più valore, ci insegna la preziosa peculiarità della vita umana, la gioia degli effimeri. Oltre che affrescare con tocchi delicati e puntuali il senso di ciò che l’Egitto fu per il mondo classico. Da Pitagora ad Apuleio.
IV
Himno órfico a Zeus
a Alberto Bernabé
Entre todos los dioses que pueblan el abismo
de nuestra soledad, es el primero Zeus,
el del luciente rayo, el centro y el origen
y el comienzo de todo cuanto existe en el mundo.
Zeus, que nacío varón y que es, al mismo tiempo,
rey y reina del éter donde abitan los astros,
de la tierra con todos sus montes y sus valles,
del agua con sus ríos y sus mares que ríen
innumerablemente, del fuego que trae luz
y calor a los hombres en la lóbrega noche
(que es también Zeus, del mismo modo que es Zeus el día,
Zeus el bien, Zeus el mal, Zeus la vida y la muerte).
Zeus, que se tragó a Metis, una de las Titánides,
para engendrar las cosas, y que inventó el amor
bajo la especie de Eros: el martirio y la gloria.
Todo es Zeus. En sus ojos habita el firmamento.
Sus cabellos anuncian el orto y el ocaso.
Él es el sol, la luna y todas las estrellas.
Nada escapa a su oído, ni el más débil susurro
de la naturaleza, ni el rugir del océano.
Es la voz y el silencio, la cuna y la yacija.
Todo lo ve. Su cuerpo es radiante, infinito,
imperturbable, hermoso. Sus hombros y sus anchas
espaldas y su pecho son aire – aire pesado,
poderoso, magnifico –, y su sagrado vientre
es la tierra, la madre universal, el útero
que alumbra los rebaños, los frutos y la flores.
En su cintura vive el mar con su oleaje
transitorio y eterno, y en sus pies y en sus piernas
se dan cita las últimas regiones, los extremos
confines que rodean el universo, el Tártaro.
Entre todos los dioses que puebaln el abismo
de nuestra soledad, canto a Zeus, que es el último
y el primero, el verdugo y la victima, el alba
y el crepúscolo, luz y tiniebla infinita,
razón de ser de todo lo que existe en el mundo.
IV
Inno orfico a Zeus
ad Alberto Bernabé
Tra tutti gli dèi che popolano l’abisso
della nostra solitudine, il primo è Zeus,
dal fulmine lucente, il centro e l’origine
l’inizio di tutto quanto esiste al mondo,
Zeus, che nacque maschio e che è, allo stesso tempo,
re e regina dell’etere dove abitano gli astri,
della terra con tutti i suoi monti e le sue valli,
dell’acqua con i suoi fiumi e i suoi mari che ridono
infinitamente, del fuoco che dà luce
e calore agli uomini nella notte lugubre
(che anche è Zeus, nello stesso modo che Zeus è il giorno,
Zeus il bene, Zeus il male, Zeus la vita e la morte).
Zeus, che inghiottì Metis, una delle Titanidi,
per generare le cose, e che inventò l’amore
sotto la forma di Eros: il martirio e la gloria.
Tutto è Zeus. Nei suoi occhi abita il firmamento.
I suoi capelli annunciano l’alba e il tramonto.
È il sole, la luna e tutte le stelle.
Nulla sfugge al suo udito, né il più debole sussurro
della natura, né il ruggito dell’oceano.
è la voce del silenzio, la culla e il giaciglio.
Vede tutto. Il suo corpo è radiante, infinito,
imperturbabile, bello. Le sue spalle e la sua larga
schiena e il suo petto sono aria – aria pesante,
poderosa, magnifica – e il suo sacro ventre
è la terra, la madre universale, l’utero
che illumina le greggi, i frutti e i fiori.
Nella sua cintura vive il mare con le sue maree
transitorie ed eterne, e tra i suoi piedi e tra le sue gambe
si danno appuntamento le ultime regioni, gli estremi
confini che circondano l’universo, il Tartaro.
Tra tutti gli dèi che popolano l’abisso
della nostra solitudine, canto a Zeus, che è l’ultimo
e il primo, il carnefice e la vittima, l’alba
e il crepuscolo, luce e tenebra infinita,
ragione d’essere di tutto ciò che esiste nel mondo.
La religione antica dell’Occidente più manifestatamente legata alla poesia fu quella orfica. Questo inno orfico a Zeus celebra il politeismo dei poeti, innegabile a prescindere dai loro personali credo. Zeus è la pluralità delle forze e allo stesso tempo il loro yoga, la loro unione. Quel dio che Eraclito dice essere notte-giorno, inverno-estate, bene-male. Le coppie degli opposti che la mente divina non identifica, ma che è l’uomo a confinare.
Il poeta canta a Zeus, che è alpha e omega. L’aria è il suo corpo. Questo inno ci ricorda, che tutto è pieno di Dio, che Dio, Zeus, è in tutte le cose. Che si creda o non si creda in lui, noi siamo lui e lui è in noi. Nei suoi occhi il cielo stellato.
V
Boecio y la filosofía
Después de una lectura minuciosa
del De consolatione Philosophiae
de Boecio me da la sensación
de haber vencido el miedo para siempre
(del pánico no hablemos) y, a la vez,
de haber dejado atrás toda esperanza.
Es lo que tiene la Filosofía.
Cuando el hombre, esa “caña pensadora”
según Pascal, se acerca a ellla en medio
de la desolación acostumbrada,
pasa lo que pasaba con el vino
en palabras de aquel mortaz portero
del Macbeth shakespeareano: que estimula
el fuego del deseo, pero impide
su ejecución. Sobreponerse al miedo
implica un subidón de adrenalina
tal que altera y perturba nuestro espíritu
y, olvidando el sermón de Benarés,
nos catapulta en brazos del deseo.
Luego llega la cruda realidad
a colocarnos en nuestra casilla
y hace que recalemos velis nolis
en el reino de la desesperanza
(que tampoco es tan grave si se asume
desde barrera escéptica y estoica
y epicúrea a la vez, tal como hiciera
en sus Ensayos el genial Montaigne).
El caso es que Boecio, denunciado
por algún envidioso de conjura
probizantina en contra de su rey,
fue alojado por tiempo indefinido
en una celda oscura de Pavía.
Fue allì donde, ignorante de la suerte
que iba a correr, cercado por la angustia,
chapoteando entre las inmundicias,
recibió la visita inopinada
de la Filosofía con mayúscula.
De la conversación que mantuvieron
ella y él surgirían cinco libros
que transcribió el magister officiorum
(que no era poca cosa) de la Corte
del ostrogodo Teodorico en Rávena.
Boecio pinta a la Filosofía
como una dama de ojos penetrantes
y busto generoso, con las ropas
desgarradas por un desaprensivo
carcelero que quiso abusar de ella
y lo que consiguió fue conferirle
una capacidad de seducción
mucho mayor que la que le otorgábamos
antes de hacer su entrada en la mazmorra.
No sabemos qué fue de los fragmentos
de tela que cubrían, estratégicos,
el deseable cuerpo de la dama:
si crecieron en fragmentariedad
o si se mantuvieron impolutos.
Si sabemos que Dante, muchos siglos
después, se consolaba de la muerte
de Beatrice con el opus magnum
escrito por Boecio en una celda
oscura de Pavía, poco antes
de ser decapitado.
V
Boezio e la filosofia
Dopo una lettura minuziosa
del De consolatione Philosophiae
di Boezio ho la sensazione
di aver vinto per sempre la paura
(non parliamo del panico), e, allo stesso tempo,
di aver perso qualsiasi speranza.
Questo è proprio della Filosofia.
quando l’uomo, questa “canna pensante”
secondo Pascal, si avvicina a lei nel mezzo
di una abitudinaria desolazione,
succede ciò che succede con il vino
con le parole di quel mordace custode
del Macbeth shakespeariano: stimola
il fuoco del desiderio, ma impedisce
la sua esecuzione. Sovrapporsi alla paura
implica un aumento di adrenalina
tale che altera e perturba il nostro spirito
e, dimenticando il sermone di Benares,
ci catapulta tra le braccia del desiderio.
Dopo viene la cruda realtà
a collocarci nella nostra casella
e fa si che penetriamo velis nolis
nel regno della disperazione
(che non è poi così grave se lo assimiliamo
dalla prospettiva scettica e stoica
e da quella epicurea, così come fece
nei suoi saggi il geniale Montaigne).
Il caso è che Boezio, denunciato
da qualche invidioso di una congiura
pro bizantina contro il suo re,
fu alloggiato per tempo indefinito
in una oscura cella di Pavia.
Fu lì dove, ignorante della sorte
che l’attendeva, insidiato dall’angustia,
annaspando nell’immondizia
ricevette la visita inopinata
della Filosofia con la maiuscola.
Delle conversazioni che intrattennero
tra loro sorgeranno cinque libri
che trascrisse il magister officiorum
(che non era poco) della corte
dell’ostrogoto Teodorico a Ravenna.
Boezio ritrae la Filosofia
come una dama dagli occhi penetranti
e dal busto generoso, con le vesti
stracciate da un carceriere
senza scrupoli che volle violentarla
e che riuscì a conferirle
una capacità seduttiva
maggiore di quella che le conferivamo
prima di fare la sua entrata nella prigione.
Non sappiamo cosa fu dei frammenti
di tela che coprivano, strategici,
il desiderabile corpo della dama:
se aumentarono la frammentazione
o sei si mantenessero incontaminati.
Però sappiamo che Dante, molti secoli
dopo, si consolava della morte
di Beatrice con l’opus magnum
scritto da Boezio in una cella
oscura di Pavia, poco prima
di essere decapitato.
Quando il desiderio è desiderio di qualcosa di inafferrabile e così presente da essere in noi più che noi stessi, questa forza, questa potenza ci trascina e ci trascende, ci trasforma e ci consola. È questa la potenza della bellissima Filosofia che visita Boezio in un carcere di Pavia e che innamorò Dante fino alla beatitudine.
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