di Valentina Furlotti
Antonio Bux, Gemello falso, Avagliano Editore, 2022
Foggia, inizio anni Novanta: un bambino rotondo passa le giornate consultando il vocabolario e mangiando panini con Emmental e prosciutto. Nutrito a dismisura dalla madre, ben presto scopre di essere troppo grosso per fare il calciatore. La sua costituzione gli rende difficile approcciarsi all’altro sesso e lo rinchiude in un ghetto forse in parte auto-costruito, finché scatta qualcosa: decide di scuoiarsi l’ombra dal cuore. Hanno inizio così il digiuno, l’ossessione per le calorie, la necessità di fare lunghe passeggiate per smaltire. Passa dall’essere 140 chili a pesarne meno della metà, dall’incarnare due gemelli ad averne quasi estinto uno per fame.
Antonio Bux, nella raccolta Gemello falso, edita quest’anno per Avagliano Editore, affronta con autenticità i demoni di chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare e si interroga sullo sdoppiamento di sé che ne deriva. Quando si instaura un sistema di ricompensa, osservare il proprio corpo diminuire diventa una specie di droga e il digiuno un voto. Bisogna camminare all’alba, riempirsi di luce, isolarsi, diluirsi, essere pronti ad annotare un verso appena arriva; anche la poesia va scremata perché risulta fin troppo facile constatarne l’untuosità.
Presenza costante nell’opera, oltre alla madre e alla bilancia, è Dio. Dio sa quando sgarri e mangiare più del necessario equivale a peccare. In assenza di Eva e del serpente, è l’uomo-Adamo che deve continuamente decidere se resistere alla tentazione di mordere la mela. Cristo non ha pane quotidiano da darti, «ma forni di fuoco e luce».
Da una parte abbiamo il «Tonino bonaccione», spesso paragonato a un maiale, che «mangia troppo per non diventare» e trascorre le giornate «irriflesso» alla stregua di un fantasma; dall’altra l’«Antonio fringuello», agile come un gatto, ispirato, statua invernale dalla «faccia a Biafra», che è tutt’uno con il sole, piace alle donne ed è perennemente riflesso. Tra loro si intesse un dialogo di ombra e luce segnato dall’attrazione di chi si ama «per disfare» e che ha il proprio punto d’incontro nello specchio – parola onnipresente nel volume.
Anche lo stile oscilla come un pendolo tra il colloquiale e il simbolico, con poesie che attingono ironicamente da una lista della spesa e altre che raggiungono vette altissime di visione, il tutto sorretto da una ritmica perfetta.
Il risultato? Fame. Fame di finire e ricominciare.
*
Si apre un deserto alla bocca
mangi troppo per non diventare.
Perciò attraversi il ponte irriflesso
fino alla sponda lontana del corpo?
Vuoi fare cappio dentro te stesso
o salvare l’anima d’un maiale
e poi esserne fame. Ma tu tocca la lama
è l’ora: scuoiati l’ombra dal cuore.
*
Da un po’ di tempo sogno insalate,
non più arancini o panzerotti, ma montagne
d’iceberg e lattughine, con buchi grandi
tra le foglie che anche i vermi
come me, apprezzano quel vegetale.
A vegetare così sto nel mio sogno, un parassita
che dal suo dentro divora vita.
E sono mesi di melanzane e di lenticchie
con poco olio, di scatolette al tonno morto
e barbabietole e cicoriette, e niente birra.
E niente amici e niente donne, ma solo libri
di poesia più magri, solo libri sciolti
e un futuro senza legame alcuno.
Ma in questi mesi io sono al centro del mio riflesso.
Il fisico mi sta chiamando, il sole entra bene
dentro i miei occhi, il sole ha un raro procedimento
e non mi duole. E la fatica è il solo scopo
sforzare il tempo a sembrarmi vivo
nei campi incolti, verso Viale Virgilio
tra piccole vipere e lumachine ci passo un’ora
e la sterrata che ho davanti è un solo verbo.
E mentre vado a volte corro, a volte una parola
come un sonno cieco mi dà dei versi
e devo sbrigarmi, mi serve carta per l’occasione
non devo perdere quel fiato vero, non posso farlo.
E sono mesi di sogni a insalate e corse tra i rovi,
il mio scheletro sta dietro l’aria, sono mesi
che nel corpo una solitudine bella
mi fa distante, sono mesi che più non fumo
e il respiro è così perfetto
il mio cervello ha solo rose non più le spine.
Questo campo solare è proprio cieco
e sono mesi che me lo dico, quanto ancora
potrò durare? Qualche tempo e poi di nuovo
il giocattolo secco si romperà.
Vorrei sognarmi per sempre dov’è la terra
di buchi e lumachine, sognarmi qui
con solo i versi, e il sole che non fa male
così eremita dentro me stesso
in un deserto finalmente in fiore, l’oasi
di questi mesi che mi ritrovo.
*
Non sono gli occhi il giusto ruolo
di un guardare bimbo innamorato
(nel vento gli occhi roteando in fuori
e poi ritornare uccisi). Mi dicevo una messa
di spine tra le tue mani. Per un sorriso
avrei spogliato erbe, o solo di un colore
tuo essere nel bianco, non esistente.
E invece dovevo solo farmi magro
e a torso nudo uccello, anche d’inverno.
Ma era tardi, per me, così presto
da farmi grande più dell’esperienza
e non avevo occhi. Invece i tuoi già simili
a un addio, ancora prima di rivederci.
Ma la colpa migliore, la tua, che ho atteso
anni prima di un bacio (la sola rosa
che non hai dato, e quella rosa mi mancherà).
Ma a quell’età non si dispera, l’adolescenza
un organo di rumore accanto e tu bulbo
di gemma aliena, tu onda rapida con me
sul mio amore un volto. Che potevo solo
esserti amico o cane, e amici miei leccarti dove
io ti avrei parlato a lungo di un dio di sale.
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