Stefania Giammillaro, Errata complice, con prefazione di Franca Alaimo, peQuod 2024, pp. 64
di Claudio Negrato
Non si giudica un libro dalla copertina, ma quella di Errata complice di Stefania Giammillaro è una che calamita l’attenzione del lettore: per la silloge della poetessa messinese è stata fatta una scelta di colore, forse insolito, ma che spalanca al senso dell’intera raccolta poetica: il viola. È il viola quaresimale. È il viola dei lividi sulla pelle di tutte le sofferenze. È il viola che ci racconta della violenza di genere.
Errata complice è una silloge densa, che usa la lingua della poesia per raccontare la verità del dolore che ogni donna può provare dentro a un rapporto d’amore resosi tossico. È strutturata in tre sezioni che narrano di un viaggio interiore che fa tremar l’anima, che muove i primi passi incerti dentro all’ambiguità de Il peccato, passando attraverso la presa di coscienza de La colpa, per giungere, quasi inaspettatamente, verso Il perdono. E questo viaggio è svolto attraverso l’utilizzo di immagini e colori che portano a una pura commozione.
La silloge si apre con il senso dell’errore, del peccato, un errore che si subisce ma del quale l’autrice si riconosce complice, come si ravvisa sin dal titolo del volume, poiché dentro al rapporto amoroso la scrittrice ci dice essere stata sempre pronta ad accettare su di sé la violenza e poi la colpa, come se fosse stata abituata sin da bambina ad accogliere le conseguenze di essere semplicemente donna. E tutta la sezione de Il peccato appare semanticamente più violenta nelle espressioni e nelle vivide immagini utilizzate. Come ravvisa Franca Alaimo nella puntuale prefazione, nella prima sezione vi sono molteplici occorrenze di sostantivi, verbi e locuzioni legati alla semantica tossica della violenza: ‘coltello’, ‘stimmate’, ‘spine’, ‘gomiti viola’, ‘grumi di sangue’, ‘un ruggito ancestrale / tra cosce nude e stoffe bagnate’, ‘soffrire’, ‘morire’, ‘urlo di dolore’, ‘colpo di pistola’, ‘utero strappato’, ecc.
Ai sensi di una legge non scritta
appesa al baratro senza risposta
è vietato venire al mondo
in un qualunque giorno di pioggia
Senza tuono rimbomba
il dire del mare
che soffia un ruggito ancestrale
tra cosce nude e stoffe bagnate
L’appetito nasce senza fame.
(p.14)
La Giammillaro, oltre a essere una poetessa, è pure un’avvocatessa e dottoressa di ricerca in Diritto Processuale Civile e quindi lavora quotidianamente con la lingua del diritto, della ragione. E la giurisprudenza attraversa le parole, le immagini e i concetti trattati nella silloge. La poesia e il diritto si fondono per poter parlare di violenza.
La lingua del diritto deve essere una lingua perfetta, “esatta”, che etimologicamente significa ponderata, misurata. Il giurista non può sbagliare a usare le parole, poiché ogni parola serve per dichiarare il vero, per dipanare la verità di un caso. I termini devono essere prescrittivi e regolativi, ma al contempo raggiungere il cuore, in questo caso, dei lettori. Ecco perché la lingua deve risultare esatta, poiché non può lasciare margini di errori interpretativi. Eppure, la lingua poetica, al contrario, deve spalancare proprio all’immaginazione (si pensi ai vincoli posti dalla siepe leopardiana e come questa venga fantasticamente sradicata dalla forza della poesia). Il lavoro della Giammillaro, allora, deve essere questo continuo mettere in dialogo tali due mondi, così apparentemente distanti tra loro, ma al contempo necessari l’uno all’altra: occorre mescere, con le giuste dosi, la ragione della legge da una parte (in italiano antico ragione era sinonimo proprio di diritto), e il sentimento della poesia dall’altra, il tutto attraverso la forza evocativa della lingua, un bene imprescindibile per giuristi e scrittori.
La Giammillaro, dunque, procede mutuando l’esperienza d’aula in esperienza verace di poesia, raccogliendo l’esattezza del lessico giuridico trasfigurandolo in bellezza poetica: “Ai sensi di una legge non scritta” abbiamo letto nel primo componimento che si è proposto, “è vietato venire al mondo”, prosegue. E continua poi con espressioni quali “e se esiste giustizia che riscatta”, “hai pagato pegno”, “senza condanna / ti avvii alla colpa”, “E condannatemi, sì / condannatemi! […] palpando con orgoglio / la mia gogna”, ecc.
Concedimi
la tempesta dei danni,
possibile perdono dei tuoi ritardi
al disordine degli sbagli
assapora il vapore
che brucia la lingua
morsa dal rimorso
lento a rapprendersi
Spogliami e arrendimi
all’atto di fede che imploro
recitando parole nuove
per pronunciare il tuo nome
accanto al mio
(p. 19)
La Giammillaro cesella la poesia del libro arrivando all’essenzialità ermetica che dà spazio ai vuoti di immagini da riempire. Se la parola giuridica deve essere precisa, la parola poetica, invece, non completa, non definisce del tutto, si cela dietro alle analogie e alle similitudini per dare la possibilità al lettore di andare a riempire quegli spazi. Si lascia posto al vero, per colmare il vuoto con ciò che rimane in sospeso. I vuoti, però, non sono solamente lessicali, ma pure ortografici, giungendo alla rarefazione della punteggiatura: la virgola è quasi inutilizzata; il punto fermo è spesso impiegato solamente alla fine del testo e talvolta non lo si troverà neppure al termine della poesia.
Due sono i testi in dialetto, nella lingua di casa della Giammillaro, una lingua dialettale che diviene lo strumento necessario alla poetessa per scavare più in profondità, per far fuoriuscire la legge della propria natura più recondita. La lingua siciliana – e non prettamente messinese – entra nella silloge per raccontare con maggior intimità, quasi come fossero delle rivelazioni fatte in vestaglia, quale sia la dimensione umana del proprio dolore. Il viaggio passa inesorabilmente attraverso la propria terra madre, non solamente tramite la riesumazione di immagini e ricordi della propria infanzia trascorsa in un ambiente restrittivo (“Era proibito il cortile / agli schiamazzi / quando le ginocchia sbucciate / bruciavano di vita / appena iniziata”, p. 32) evocato precipuamente nella seconda sezione, La colpa, ma anche, appunto, afferrandosi alle parole più intime della lingua madre, estraendole con forza, come per difendersi a mani nude dai colpi di lama della violenza:
Nun s’adduna
Nun rinesci a cunfunnirimi
ca sugnu bedda (sì)
Maliritta biddizza ca nun s’adduna
Ca mi vardi rintra l’uocci e mi capisci
mi piacissi cririri
ma veni sulu n’ menzu l’anchi a pussidirimi
E mancu mi vardi (no)
ma mi rici ca sugnu bedda (sì)
Maliritta biddizza can un s’adduna
Vastassi na canzuni di na stidda p’arricriarimi u cori
ma ti fa priautu u to silenziu ‘nzivatu
ca stavota nenti mi rici
mancu ca sugnu bedda (no)
Biniritta biddizza ca cancia ‘mmarazzi pa viriognia
e s’adduna sì,
ri essere ‘a cruci ri sta menzogna
(p. 24)
In Errata complice, poi, prevalgono soprattutto i colori della notte, dell’oscurità, quelli di un male compiuto nella penombra sanguinante di ogni violenza, fisica e verbale, allusivi alla sofferenza che direttamente colpisce con crudeltà l’anima di una donna che decide di essere “errata complice”, di accettare passivamente la propria condizione di vittima, prima di comprendere di doversi riscattare.
Il viola dei lividi consegnati alla giustizia è pure il viola quaresimale, il colore della Passione in attesa di un perdono. La lingua del diritto si intreccia anche con quella della poesia religiosa, con un forte sentire di radicale devozione in attesa di perdono e rinascita. Dopo la presa di consapevolezza della propria complicità, la Giammillaro giunge a un travagliato perdono, innanzitutto di se stessa. Al termine del viaggio dell’anima che passa in profondità attraverso i sensi di colpa, la poetessa messinese comprende come sia necessario abbracciare sé, completamente, prima di tutto, “dalle guance all’alluce”, come in risposta a un’altra poesia de La colpa, nella quale si denuncia che non siamo mai come gli altri ci vorrebbero (“che indossa la bestemmia / di non essere come vorresti” p. 38):
Che se poi ti abbracci
non ti raccogli intera
ed è sempre difficile
stirare gli angoli
Che se poi ti abbracci
sei tutta per te
dalle guance all’alluce
e sul tuo equatore
un accento di libertà
(p. 59)
Questo perdono di sé è fortemente legato al perdono pasquale, all’evento conclusivo della redenzione quaresimale. La componente religiosa, accanto a quella della giurisprudenza, pervade interamente la silloge, mutuando la parola poetica in preghiera: “Preservami da ogni male / e inginocchia la colpa”, “Hai votato la sacra bellezza / al tabernacolo di amanti senza tempo”, “Spogliami e arrendimi / all’atto di fede che imploro”, ecc. Il percorso di fede che accende la sua poesia, s’infiamma soprattutto nell’ultima sezione dai tratti più sereni, che rallentano l’effetto tragico della prima parte; e qui esplode anaforicamente l’espressione di giubilo “Ho vinto Dio”, dopo aver recitato l’“Atto di dolore dei miei sbagli” e ricevendo allora la “Carezza che perdona” (p.56).
Dunque, accade miracolosamente una rinascita pasquale, che conclude il viaggio viola quaresimale, una rinascita che a prima vista appariva vietata, sembrava dover essere resa impossibile dal peccato e dal senso di colpa, ma che solo la “Carezza che perdona” permette. Se inizialmente, nel secondo testo, la Giammillaro afferma che “è vietato venire al mondo / in un qualunque giorno di pioggia”, e proseguendo, poco dopo, narra di un “travaglio di un parto, senza nascita”, prima dell’Epilogo in siciliano, conclude la sezione Il perdono con la resurrezione dell’anima dell’errata complice, che ha conosciuto, dunque, il perdono e la carezza:
Nulla è perduto
tutto è adesso
Non sono viva nel ricordo
nell’ossessione
di quel che avrei potuto
La carne è in questo pizzicotto
che giro di traverso per sentirmi
quando non distrae il mare
La parola è ponte che attraversa
la possibilità di perdonarmi
allo specchio dei rimorsi
E se sanguino
sanguinerò per partorirmi
(p. 60)
Quel nulla pascoliano che il poeta romagnolo faceva rimare con culla e che fa eco nei versi di un’altra bella lirica della Giammillaro che chiude la sezione La colpa (“Inaspettato / ricorda cosa / eri diventata / ‘Niente’ / allo specchio / ‘Niente’ / sulla carta / ‘Niente’ / tra le braccia / ‘Niente’ // Quel niente che dondoli in culla” p. 48) nella quale rammenta come la violenza annienti la persona, la svilisca a tal punto da lasciarla scivolare via in un niente. Ma, alla fine, il perdono offre la possibilità del riscatto, di rendere il “nulla” un “tutto” e di “partorirmi” nuovamente, tramutando i “grumi di sangue” delle prime poesie in un sangue di resurrezione e di rigenerazione per una errata complice perdonata.
Può interessarti anche:






Leggi anche
- 2 settimane fa
- 4 settimane fa