Quando ho letto per la prima volta il libro di Fatmi Abbadi Ali, Una casa blu, ne sono rimasta felicemente turbata, mi sono sentita attraversata dalle parole e dalle visioni che il giovane poeta semina e nasconde tra i versi. Già allora avrei voluto scriverne, ma sentivo di non essere capace di orientare quel movimento che i testi avevano creato. Sono trascorsi alcuni mesi da quella prima lettura e adesso che riprendo in mano la raccolta provo il medesimo turbamento e, ancora una volta, ne gioisco. Credo che un libro, soprattutto un libro di poesie, debba fare proprio questo: turbare, muovere, agitare, spostare il lettore dalla comodità delle sue certezze, aprire visioni spaesanti, scomode. Ed è ciò che Fatmi Abbadi Ali fa con disinvoltura e naturalezza attraversando alcune dimensioni fondamentali dell’esistere, come la lingua e la famiglia.
Un libro di presenze, popolato dalle voci, dagli odori e dai silenzi di coloro che rappresentano la famiglia, ricevuta o scelta, dell’autore, i cui membri sembrano divenire spettatori, a volte partecipi, a volte distanti, del suo personale percorso di crescita, del suo cammino verso la conoscenza di sé stesso. All’interno di questo percorso la dimensione linguistica assume un ruolo centrale, tanto che in esergo troviamo proprio una citazione di Natalia Ginzburg tratta da Lessico famigliare. La lingua, ci mostra l’autore, non è solo un semplice strumento di comunicazione, ma luogo originario di identità, carne viva in cui si conservano le memorie degli antenati, eterna traccia del proprio venire al mondo in un determinato spazio e tempo, per questo dono da custodire: Non capivo che una lingua l’hanno avuta, / tatuata nella lingua non l’avrebbero confusa / con un’altra, p.13.
Una lingua che diviene, così come una casa, luogo da abitare e attraversare, luogo di legami e intimità, di riconoscimento (Li ho annotati per anni / in francese: la lingua dei nostri occhi, p. 16). Negarla, dunque, cancellare la propria lingua per assumere quella degli altri e diventare così comprensibile, sembra assumere i connotati di una violenza (In piena mattina ho capito, / devo buttare via tutto di me: / i peluches senza nome, / il mangiarmi le unghie, / e il ripetere formule strane a memoria // essere incomprensibile. // Dovrò rendere solo la parte migliore, / quella istruita, quella prudente, p. 33). Tale passaggio, seppure doloroso, sembra divenire una tappa importante dell’itinerario esistenziale del poeta, una tappa per conoscersi, per conoscere l’oggetto del proprio desiderio (cercavo qualcosa, / di capire che cosa, p. 51), per trovarsi (speravo ci fosse lontano una forma più adatta, / la parola che mi serviva, p. 32). Infatti, nel percorso di formazione dell’autore, così come in ogni cammino verso l’età adulta, diviene necessaria una fuga, una separazione, non certo priva di sofferenza, dai luoghi dell’infanzia, dalle figure originarie di riferimento. Tale separazione, però, non si configura come scelta definitiva, ma a essa segue il ritorno, con una nuova maturità, nei medesimi luoghi, con la scoperta che solo lì, dove tutto è iniziato, si può essere pienamente sé stessi (Quando torno qui, non ci vorrei tornare. / Ma poi lo riconosco, questo posto / mi appartiene, non mi salverò senza tornare / ogni tanto, quel poco / per non dimenticare chi sono, p. 56), riconoscendo l’esistenza di un disegno più grande, che abbraccia e avvolge epoche e generazioni (Mi gridano gli occhi, sono / stato anche in loro, lo sono, p. 57).
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