(il super scheletro di Gino De Dominicis)
di RoM
Il corpo non v'è, né mai probabilmente fu.
Più plausibile fosse: mostreggiatura di stoffe, stoppie, ghigni in cartapesta.
Nessuna cronaca dunque, ma dimissione sbrigativa, trasmissione di parvenze per ridevoli giochi di mostranza.
"La esilità dell'esistenza teatrale non può produrre che morti esili, suicidi effimeri, lacerazioni senza disperazione".
Solo suicidiari trapassi di forme (si monumentalizzano allora delle potenze di trapasso che, cadute sotto il raggio delle nostre ottiche grezze - notarili, decadono a cose, opere, "entità").
Non è certo - l'enigma che interroghiamo - scheletro di creatura umana o vivente, ma più credibilmente impianto di fantoccio / simulacro / maschera / feticcio.
Giacché l'articolo posticcio e pulcinellesco scanzona tutta l'eminenza macabra e drammatica d'uno scheletro applicato al vivente, ossia scanzona la risoluzione/rilancio vita/morte che ogni vivente avvisa sotto la carne (ossia il piano di tenuta/azzeramento di tutta la massa pulsante). Il piano ossia in cui la vita è totalmente mondata, estinta, sorbita in questa grana purgatissima d'osso, che più terso non si può (e ciò ha un ché di scandaloso, fasullo, per cui flagrante, che tale nettezza, senza tracce di usura, da referto di morte trapassi a substanza incorruttibile).
Già questa molatura, bianchezza, esattezza aurea, l'apparenta al modello ortopedico o all'artefatto astratto (formato attagliato ad assestarsi a simbolo, archetipo, figura d'annientamento d'ogni espressione particolare e vitale).
Ma l'alto statuto è subito sconfessato dall'addendo surrettizio (il nasone appunto) che tradisce la qualità farsesca del suo realismo:
"Non fui mai un corpo né - attualmente - sono subietto d'un corpo. Non emblema, allegoria, grafo concettuale.
Son la maschera in ossa del personaggio in costume.
Giullare, buffone, pupo, macchietta, che vi mima/falsa la realtà fin dentro il fondamento mortale!"
Giacché in vero, un Pinocchio, un Pulcinella, un Berlicche, un personaggio da commedia, recitando la vita non può che schernire la morte.
La verosimiglianza non presenta qui un modello ideale ma una caricatura, una irrisione e defezione alla mortalità umana.
Così come un burattino è l'infimo fatto a somiglianza del supremo.
La superforma che regge l'informe (il deperimento, la lascivia, la disordinata brama, la neghittosa sazietà, la morìa, la decadenza).
La presenza farsesca è tutta espletata dalla protesi sovradimensionata del becco.
Particolare che ci afferra nei domini della burla, della fandonia, del tiro mancino, sotto i presagi di una sordidezza congenita e che intacca ogni parola e gesto e postura espressa dal portatore.
In questo caso il portatore non favella, né ha movenze alcune o sussulti, e dunque anche la stasi è qui menzogna, beffa, parodia salace.
(Si osa dunque sottrarci tale ultimo orrorifico sopimento).
Lo scheletro infatti non incute orrore e vi è, pare, della solennità, che veglia sulla spoglia: non tanto per la grandezza da colosso (per tanto spazio dato alle ossa, che sempre, per loro stato liminare: tra organico/inorganico, presente/assente, fondamento/scoria, esalano quell'aura portentosa di reliquia e, parimenti minatoria, di intruso nella comunione dei vivi.
La sua sacertà erompe piuttosto per l'oltraggio, la violazione che l'innesto facciale infligge alla serietà del fatto naturale.
Insomma, questa morte è apparente e del tutto innaturale!
Essa non è ingenita a tale figura, al contrario la irrealizza, forse snobba.
Voglio dire: se lo scheletro è effige di inerenza alla morte, questo speciale esemplare afferma solo l'estraneità delle ossa al destino mortale.
Dunque, devoti al binarismo dalla lingua, solo così potremmo tradurlo:
esso, non cifrando la morte, cifrerà il suo contrario: l'immortalità.
E tutto ci porta verso questa direzione, in quanto tale antropo fittizio, segnalato da subito come pulcinellesco, intricante, mefistofelico, estolto dal ciclo germinale/vegetativo, non potrà che essere il costrutto di una gigantesca burla.
La messa in berlina del nostro fato, che in vero non è il "fatto" della morte ma l'angoscia, lo sviamento, il diniego, alla base delle scellerate operazioni/riparazioni che la nostra specie ha ideato contro la congettura della scadenza, del termine definitivo (e di nuovo un nostro paradosso: invece di minimizzare, spregiare la morte, farne il principio nascosto di una vita dimidiata).
Se ogni gnosi dell'immortalità era fin qui consolatoria e dilatoria, il tale Immortale, non concede alcun sollievo.
“Immortale” non ripete: perennità di vita! Ma è sia non-morte che non-vita.
E appunto, la sua non-vita è esasperante, in quanto occultamente operativa.
È la sua prossimità al "fantoccio", manufatto pericolosamente simigliante al morto, che lo rende medium, dispositivo di tutti i portenti pneumatici e taumaturgici, proprio mercé la sua parvenza umana devitalizzata.
Non da appigli né alla morte né alla vita, ma all'incognita che fende entrambi schivando le annotazioni.
Totem oltraggioso, sordo al nostro uso e consumo (finanche simbolico), sfinge che scioglie l'enigma nell'impensato.
È per quel solo tratto menzognero e importuno, che tutte le rotte del senso ci sono insabbiate!
Solo per chi si strania dal proprio retaggio umano (dalla esistenza spuria, meschina e tremebonda insomma), per vocarsi irreale e fantomatico, Esso offre - può offrire - una qualche sordida letizia.
Per i più, restando insensato ed enigmatico, continua a profondere una ansiosa, riguardosa interrogazione.
In Esso cercano i segni di una spiegazione ulteriore, un fregio come garanzia che, da qualche parte, il significato del mondo è custodito.
Senza tal segno non si darebbe angoscia, ma senza angoscia il mondo, restituito alla fragile armatura della naturalità, subito si dissolverebbe.
Solo fidando che, nella estinzione del paramento carneo, spiccherà il suggello di questo naso puntuto, ieratico, sagittale (ora mi pare curiale, più che clownesco), noi muteremo l'idea di vita e di morte con quella di ritorni e commiati.
Non conta dunque l'identico (che è alla base del terrore nostro di morte propria, assegnata) ma il riecheggiamento delle molte forme e gesta che ampliano il copione.
Varietà astratta e impersonale, che il nostro archetipo ben evidenzia col suo anonimato indefesso e quel distintivo eccezionale: l'iperveritato contrassegno di ogni commediante.
Ed ecco allora che il titolo dell'opera (la calamita cosmica) prende una sua inaspettata piega.
Pulcinella, Pinocchio Pierrot o chicchesia ci resiste e respinge fino alla morte - fin nella morte - che per Esso è una maniera come un'altra di pigliarci per… il naso.
Assumendo la figura più ridotta, senza perdere la sua eccezione, come a noi accadrebbe in questa estrema radiazione di caratteristiche. Infatti noi ci “impersoniamo” e raramente consegniamo a un segno distintivo, destinale!
Se ciò accade, così tra i viventi (i mortali) si palesa:
assuefazione, spossessamento, vaniloquio, malattia, oppressione, viscoso parassitismo.
Non sappiamo reggere il crisma esoso dell'esasperazione pura, senza faccia, rango, lignaggio, classe, lingua, alfabeto, rapporto sociale.
Ma colui che sup-porta, filerà furoreggiando verso la non-morte.
"In questa effige mortale non traluce la morte, ma l'immortalità, la sua potenza di negarsi. Ma tale negazione, essendo surrettizia, ribadisce l'immortalità".
Al che protesteranno, inchiodati alla loro morte (al raziocinio ossia), tutti gli apprensivi, gli accaniti, i dialettici, gli avvocati, i timorati di dio:
"Ma certo, certo. Tutta la materia è illusione, la vita vera è spirituale".
Annientando lo spirito burlesco per cui la materia è coalescenza (a volte inerte giacenza) di epifanie spirituali.
Ma torniamo al controverso titolo dell'opera.
La calamita, secondo le mie discettazioni, non è l'asse saettato verso il cielo quale un radar di trasmissione-ricezione... Essa è solo un diversivo, una sleale divagazione del funtore.
Ma forse non è nemmeno un articolo voluto solo per confondere, depistare.
Potrebbe in fin dei conti trattarsi dell'asta in cui, prima di imprestarsi al nuovo scenogramma (codesto che investighiamo), Esso (il manichino) viene ancorato al suo seggio, nella teca di un qualunque Mangiafuoco.
Insomma, è ovvio che questo oggetto ai miei occhi rozzo, eccessivamente moderno, non mi convinca.
Calamita è piuttosto lo scheletro intero in cui il cosmo trova la sua massima attrazione.
"Che tesi strampalata!"
Belerete in coro.
"E perché mai il cosmo sarebbe attratto da un pupazzo d'ossa?”.
Innanzitutto perché, come acclarai, questo pupazzo invita alla nostra dimissione dalla mortalità, dalla contingenza, dal caso individuale.
Esso insinua che non si può, non si può morire la morte, ma solo fingerla, al più costeggiarla.
Ed è occorso disegnarsi un po' fuori dall'umano (anatomicamente parlando) per accogliere un pensiero tanto empirico!
Secondo, che dovremmo insieme cassare la nostra idea di vita così come viene da noi sentita e formulata.
Dal momento che tutta la vita viene pensata sulla base dell'onta della morte (alcuni addirittura apostrofano: "l'assurdo della morte!", ma non per sottolineare la sua irrealtà, quanto per spettralizzare la realtà della vita!).
Da questo nichilismo cosmico processato da una pavida e tortuosa cogitazione, il maiestatico (scheletro) vorrebbe affrancarci.
La morte non esiste e la vita è l'indefinitivo riassemblarsi di una commedia.
Anche il cosmo partecipa a tale commedia giustapponendosi e tarandosi, restringendosi e ampliandosi a seconda del nostro momentaneo repertorio (quello che, per un’infinità di ragioni che rasentano il caso, l'arbitrio, l'inciucio, ci troviamo addosso).
Lo scheletro attrae il cosmo come un buco nero in cui la vita tutta, nella sua grandiosità arcana e impensabile, viene convocata, riassunta, scissa dal suo legame con la morte (la sua deferenza, sussiego, servaggio alla morte!).
Ed il cosmo risponde, arride, aderisce!
Solo in Esso la sua remota, impervenibile pulsazione riecheggia.
Irresistibilmente convola verso questo segno, spurio, succinto, arrabattato (in fondo bastò applicare un'antenna a un modellino seriale), a cui tocca oggi rimemorare e commemorare che solo l'uomo muore nella falsitudine di una miserabile morte.
Esso si intitola per questo “calamita” e non “calamità”!
Fonte foto: Wikipedia
Calamita cosmica di Gino De Dominicis è una scultura realizzata nel 1988 e conservata nella ex chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno (Umbria).
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