Maura Baldini, Insula, Marco Saya edizioni 2025
di Grazia Frisina
Dapprima si bordeggia, si fa un periplo intorno all’insula-libro, si osserva l’essenzialità della superficie, la nudità della copertina, si resta interdetti su quel segno grafico – una lettera del sanscrito? – di cui piacerebbe scoprire il significato. Poi si approda aprendo una pagina, ed ecco… Vieni, avvicinati: il primo verso, ouverture, che non è l’invocazione alla musa Calliope, come ci si aspetterebbe in un proemio, ma anaforica voce sirenica, irrevocabile invito a noi passanti-lettori, per varcare una soglia sconosciuta.
Da quell’istante è un addentrarsi, mediante piccole soste, nell’isola di ghiaccio e fuoco, di deliri ventosi e acque torve, di notte affamata d’eterno e di luce inflessibile, di precipizi e fratture telluriche, di distruzione e splendidi furori: l’Islanda, l’isola baccante.
Avanzando in essa sembra di compiere un cammino a ritroso nel suo immenso e arcaico passato, nel suo pre-umano territorio, ancora investito dal fiato di ctonie divinità mitologiche, che non hanno paura.
La raffinata silloge poetica di Maura Baldini è una sorta di poema in senso classico, costituito da un proemio e un epilogo, nel cui corpo centrale di XXXVII ‘canti’ è delineata e descritta la mappa dell’itinerario compiuto da lei in Islanda.
Dunque, un viaggio, forse incauto, in una natura ignota e titanica, trionfatrice sulla vulnerabilità umana. Perché qui quello che conta / è mantenere la distanza.
Eppure si avverte, fin dall’inizio, la necessità di chi scrive di entrare in comunione con la terra che sta attraversando, intessere un ordito tra la parte più esterna, la litosfera, e ciò che vi soggiace sotto, ancora più convulso e primitivo. Di riportare e fissare su di sé e fuori di sé, con parole e immagini come lampi e abbagli di tenebra, i segni di un passaggio, tra paure vertigini stupori salti nel vuoto, su questa terra di estremità geografica, di estremi elementi, di radicali contrasti e di osceni paradossi che generano vita.
È un continuo procedere fra fuori/dentro, fra dentro/fuori, tra Sottosopra/soprasotto, fra luce/buio/luce/buio: un flusso incessante, con indugi su tappe da esplorare, che diventano lenti d’ingrandimento su un camminamento orfico nel proprio animo, – infilati nello scheletro della luce, / ascoltando i respiri, / il cuore invertebrato della voce –, nella propria esistenza e nel proprio oscuro destino, – tocca la mia radice e dimmi / che nel vuoto so ancora imbestiarmi, / che ancora so spegnere / il fuoco larvato di questa solitudine.
Una peregrinazione a tratti lancinante e silenziosa nell’entroterra del proprio io, quasi per assecondare l’urgenza di un privato scandaglio, di un ritorno a sé attraverso una metamorfosi. È tempo che il tarlo diventi cura.
Baldini quindi non corre, – mi cammino dentro – si ferma, per sentire l’inudibile intersecarsi tra la morfologia, stati e moti, delle viscere con le asperità del suolo, con le sue faglie insanabili. S’attarda per tracciare una partitura tra consonanze e dissonanze che lei percepisce tra il paesaggio, osservato e contemplato, e il proprio vissuto, il proprio essere, la fatica del vivere e la sua incomunicabilità – Così noi. / Come l’acqua senza requie / benediciamo l’antitesi, / e senza requie negandoci / incubiamo il desiderio / di una perfezione inferiore. Un confronto tra contemplante e contemplato, un faccia a faccia tra due inquieti, seppur insondabili, daimon, che ci giunge, liricamente immediato e sincero, senza filtri né mediazioni. – Eppure, nell’ammanco di vita, / i pensieri maturavano agnizioni, // sconfinate densità.
Pagina dopo pagina, sosta dopo sosta, accogliendo quel suo richiamo iniziale, stiamo dietro, anzi a fianco, al suo passo lento. Entrando in quel territorio si ha la sensazione di un mugolare sulfureo nel sottofondo, di una seduttiva prossimità con la morte, di un ancestrale brivido, impreziositi da versi, fitti e tesi, talora fasciati in un enigmatico silenzio, di domande insolute – Cosa guardiamo nell’eco di un impercettibile movimento del cosmo? La risposta si disperde, sfuma nell’abbraccio del porticciolo, soglia che apre verso il grembo oceanico.
Spazi bianchi intrisi di un’attesa illimitata che sembra presagire un dramma, una deflagrazione cosmica, un sommovimento intimo, forse dionisiaco, come se anima e materia si appartenessero e si sbranassero le carni.
E ciò malgrado, in questo fatale travolgimento sopravvive un desiderio, una tenue speranza, il conseguimento di una stasi, l’ancoraggio a una minima salvezza. – Ma noi vogliamo essere ascoltati e assolti, / vogliamo una mano sul capo, / una foglia che accarezzi la guancia. / Vogliamo l’emersione, l’ascesa mirabolante, / un sogno che non dice ma diventa. / […] come il più docile autunno del cuore.
Finché, arrivati al termine del percorso-lettura, piano ci allontaniamo, magari nella condivisione di una consapevolezza, espressa in sordina dall’autrice, che la febbrile ricerca di un senso all’ossimorico vivere, che l’ansia dell’ossessivo partire – quasi fosse una brancolante fuga da sé – per un altrove, per un’illusoria Avalon, non troveranno pacificazione – non nell’esilio, / e nemmeno nel ritorno – ma provando a chinare e a coltivare lo sguardo – nell’ipogeo degli occhi – nel profondo noi stessi.
Riecheggiando un pensiero di Bachelard: “Per quanto possa apparire paradossale, è spesso l’immensità interiore a conferire il vero significato a certe espressioni riguardanti il mondo che si offre ai nostri occhi”.
Ci accomiatiamo da Maura e dal suo viaggio, non dalla sua poesia, lasciando risuonare nel cuore, come un piccolo lascito, linfa di chiarore nello smarrimento tenebroso, la musicalità della strofa che conclude il poemetto – Sei tu la parabola dell’alba eterna / l’onda immensa che s’avvicina, / la speranza mai sopita / di un volto che abbraccia l’infinito.
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