Per due libri belli della collana rinata di Guanda
di Davide Rondoni
Alfonso Guida, Diario di un autodidatta, Guanda 2025
Marco Corsi, Nel dopo, Guanda 2025
Farò una recensione breve e a due ante. Ognuna dedicata ai due poeti che ho letto finora della collana rinata di Guanda (a cui sono ovviamente affezionato) e che ha trovato in Mario Santagostini un esperto rianimatore.
Il libro di Alfonso Guida, "Diario di un autodidatta" magmatico e magnetico, nato da zone dove "la mente mancò il suo pensiero" come dice in uno dei tanti bellissimi struggenti versi, è scritto, come dice in conclusione "da una riva". Da una riva che è al tempo stesso abbandono e tensione, solitudine e grido. "Diario" dice il titolo e le pagine fedelmente, oscuramente, sperdutamente un diario ci danno. Un diario del sud, certo, il diario di un uomo che non sa uscire da sua madre, e che scrive "Quando una madre urla, il figlio impazzisce", il diario di un "atleta sconfitto" che attraversa città, incontri, dancing, hotel, sesso nei campi o in un pollaio, "zie di Milano" e che vive come un "feroce fermento di cordogli" e di sé dice "sfidavo l'acropoli - da funambolo". Ma di questo diario mi colpisce, oltre alle vicende, la corrispondenza tra esistenza e modi del dire, o chiamiamolo stile. Autodidatta, dice il titolo, ovvero una scrittura che certo attraversa letture e letteratura ma mossa da una propulsione interiore e resta fermamente obbediente alla propria urgenza, erotica e mistica, di conoscenza della vita. Didatta, dittatura, "amor che ditta..." Non s'ha mai, leggendo Guida, l'impressione di uno che, ecco, si mette a scrivere - il vizio che abita la nostra letteratura in virtù di quel dispotismo mite petrarchesco di cui parlava Mario Luzi - ma domina, dantescamente, o rimbaudianamente, l'esperienza di una parola poetica nascente dalla medesima combustione del viaggio, dalla medesima tensione al destino, dal medesimo grido "dalla riva". E questo è a mio modesto avviso gran pregio, in un torno d'epoca dove la poesia viene sbattuta tra estremi di chi la idolatra come unico senso del mondo - mallaermeani fuori tempo massimo - e chi la usa per piccoli narcisismi. Tra questi opposti che in realtà si toccano e somigliano, la voce di Guida irrompe inquieta, movimentante, salutare nella sua benedetta visionaria insania, cioè fuori dalla presunta salute del mondo.
Marco Corsi è poeta di vaglia, sa calibrare tutti gli strumenti della sua orchestra in un libro, "Nel dopo", vario e compatto. Una sorta di liturgia della scomparsa come regola del mondo e del vivere, dove si trovano non a caso, essendo un libro fondamentalmente religioso, riferimenti lessicali e modi propri del linguaggio religioso. E vi si trovano parecchi passaggi o evocazioni, e qui sta un merito, poiché tale sondaggio da parole di riti e preghiere non è fatto per dare, come capita in altre voci, una sorta di tinteggiatura di profondità, quanto perché la "questione" del libro è profondamente religiosa. Con questo intento nel suo più alto senso il termine che indica la lettura e l'indagine della propria esperienza ("Molto spesso ci siamo interrogati/ sulla docile sostanza del mondo" così inizia il libro) e la tensione a misurarsi con cose ultime e non con cronachette di "piccoli fatti veri", i quali semmai acquistano verità se visti in una prospettiva di legame con il destino. E questo fa con sapiente poesia Corsi, armato della lettura (anche per mestiere - spuntano qua e là citazioni manifeste e occulte di Villalta, di Benedetti, di Riccardi e altri) e soprattutto animato da una tensione che gli fa attraversare luoghi natii, pezzi di mondo, confronti con persone amate, o poeti o conversazioni date a barbagli, e la fede nell'amore, e il senso di un noi generazionale nel mondo, con la fiaccola accesa di una lingua (o "schiuma di parole che sarò per sempre") che pare poter essere, nella sua natura anch'essa passeggera – schiuma - la migliore testimone dell'esser stati. In questa liturgia della sparizione, l'unica, quasi, che sembra elaborare il mondo d'oggi, e a cui lo stesso poeta partecipa. E se da un lato onora la "mamma santa" la quale accoglie e chiama "il mio bambino benedetto" dall'altro offre la sua voce che dice "con orrore - il mondo è bello" in un paradosso che non si risolve o si risolverebbe solo nella consapevolezza di non essere qui in paradiso. Ma appunto non si offre tale ipotesi nel libro bello e malinconico di Corsi. E qui il poeta si accompagna a una tradizione di canzonieri che "addomesticano" (o ci provano) nella letteratura il paradosso di essere vivi, amare ma di non essere in paradiso e dunque convivere con il dolore e il vuoto e la sparizione. Resta dunque una elegante e colta liturgia che di tutto vede la sparizione, cantata dall'unica testimone che dura (ma non sarà forse presunzione dei poeti?) lei, la poesia...Tutto questo in una voce sincera, artisticamente avvertita, e con vivissimo cuore...
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