Serena Mansueto, La statua inesistenza, L'arcolaio 2024
di Michela Silla
“Le vicende umane emergenti incarnano e simbolizzano sfaccettature comuni a moltissime persone, trovandosi il più delle volte, e inesorabilmente, nel sommerso del non detto”, così scrive Serena Mansueto nella nota in appendice alla sua raccolta poetica La statua inesistenza (L'arcolaio, 2024). L'opera è composta da trentanove poesie. Leggendole ho danzato nel gioco di specchi tra esteriore e interiore – aggettivi impiegati dall'autrice come titoli per le poesie, insieme a sogno, distacco ombelicale, distacco placentare e futuro superiore.
*
sogno n. 1
È un maschio. La luce notturna posata
sui cuscini, tra le costole una camera di sudore
presagire sotto le coperte.
Ti scuoto innalzo un'onda fondo un piccolo
tormento di parole avulse dal sogno.
Ma ti giri dall'altro lato del sonno.
– – Solo storie misurabili, etichette al margine,
l'origine certa del materiale.
Credere è lanciare un sospetto, molte storie
che conosci
sono state tramandate.
(p. 28)
La suddivisione dell'opera in quattro sezioni è affidata alle citazioni: Antonia Pozzi in apertura, quindi Derek Walcott, Cesare Pavese e, per chiudere, Cristina Campo: “Su acutissime lamine in bianca maglia d'ortiche, ti insegnerò, mia anima, questo passo d'addio”[1].
L'interiore è uno sguardo su una dimensione intima, ma non chiusa; si trova piuttosto in comunicazione con l'esteriore: “piccolo, piccolissimo, il seme / ancorato come una goletta nella rada / crea il suo nido nel nucleo di luce”[2] (p. 17). La poetessa osserva, e restituisce nei versi, nascita e morte da tale duplice prospettiva: il dentro e il fuori, due piani in costante dialogo.
La gioia per la vita che viene al mondo è un bagliore momentaneo, una visione – quasi un flash – che si fa subito statua; benché non esista più, nel ricordo si cristallizza. Per pochi istanti l'autrice fa esperienza di questo fulgore e la sua intensissima percezione lo ferma per sempre, lo blocca in uno spazio in cui diviene eterno.
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esteriore n. 22
Ho portato un figlio – solo nella voce –
l'incastro della pancia sull'orlo dei vasi
la conversione delle ossa, un nuovo atrio
da arredare.
Il coro di ombre è fuggito dalla sua cesta
non resta che la strada levigata della collina
Tornano le mosche sui vetri
colonie di zanzare nei sottovasi.
Da lontano sposto le mani spezzando la luce
dalle forme unite
e come i rondoni non tocco mai le righe della terra
vivo nello stormo continuo
nell'increspatura di un grido.
(p. 54)
*
esteriore n. 23
Abbiamo dato un nome, la certezza di essere stato
di essere stata.
Seminato e raccolto nelle divaricazioni alla vita
il tuo nome Argento è ritornare
nel tempo, essere nella bocca tra le fioriture
e le rovine della lingua, nella gibbosa crescente
o calante.
C'è una strada incenerita nel caldo di agosto
il colostro alla riva s'inchioda sugli scogli
una schiuma batte sul viso
aspetto la povertà della notte
gli occhi chiusi a cambiare la storia.
(p. 55)
È evidente il tentativo di guardare e riguardare, forse proprio per insegnare all'anima “questo passo d'addio”[3], ed esplorare da diverse angolature la medesima esplosione di luce, il medesimo strappo feroce (“Ma ti ho già perso, deflagrato nel silenzio”, p. 41[4]), come per studiarli, per cercare furiosamente di comprenderli entrambi, di sentirli – abbraccio e perdita – fusi lungo una scia che va oltre la morte, che anzi si fa statua, immobile e tuttavia permanente, memoria ostinata e imperitura della scintilla creatrice, fugace ma indelebile. L'inesistenza diventa statua – dal latino statuĕre: collocare, innalzare – e viene portata verso l'alto, celebrata e immortalata, perché in quella mancanza c'è, e sempre ci sarà, il segno della vita.
*
esteriore n. 24
Rendila liscia sotterranea la colonna di fuoco
il fianco del mondo attraversa le cose toccate,
le voci raggruppate nel tuono, dentro la bolla
le sottrazioni del corpo. Chiedono
le ragioni dell'assenza:
devo legittimare anche il segreto, il palpito
interrotto del mio alfabeto, quella cara oscurità.
(p. 56)
Dal punto di vista linguistico la raccolta pullula di voci che afferiscono al campo semantico del corpo e della maternità: anca, lingua, vene, pancia, ossa, polsi, cosce, testa, collo, occhi, ginocchia, viso, sangue; e poi seni, capezzoli, parto, cordone, strillo. Alcune parole sono proprie dell'uso infantile o del linguaggio familiare, come pipì. Inoltre sono presenti vocaboli appartenenti al lessico specialistico come catalessi o microorganismo e altri ancora.
Infine, anche attraverso l'osservazione dei campi semantici ricorrenti, risulta chiaro che l'autrice si muove entro poli opposti di significato: nascita e vita, grembo e mondo; uno slittamento continuo tra microcosmo e macrocosmo, tra ciò che è infinitamente piccolo (il seme, il germoglio, la goccia) e ciò che è infinitamente grande (il mondo, l'universo). E da entrambe le visuali il dolore viene percorso come si attraversa l’esultanza: è il rovescio della medaglia, e dunque parte di essa. Il non detto di gioia e pena che ci unisce è un fiume da cui lasciarsi condurre con fiducia, custodendo la speranza di “altri sentieri”:
*
(...) L’indirizzo del tuo paradiso è una crosta
sulla pelle, arriveranno altri sentieri sotto gli occhi,
si calmerà il coro. Manderemo via quel sospiro.
dove si disperde?
(p. 51)
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