di Riccardo Olivieri
Michela Silla, Cosa c’è di vero nelle città di mare, Cartacanta Capire Edizioni 2024
Estate airone
estate volo notturno
da quale taglio nel buio
arriva la luce?
E quando voci accalcate
dai bar, dalle gelaterie
la sera abbassano il volume
e si diramano nelle vie
resta un’eco stanca
e tepore sui muri
per la vita piena
la vita tutta,
sembrava niente.
Così comincia (quasi-comincia, in realtà è la terza poesia) il libro di Michela Silla. Con versi sicuri, certi, come solo chi è guidato da una voce autentica – diciamolo subito – un poeta, sa fare.
C’è un’eco qui di alcuni passaggi del libro-gioiello di Davide Rondoni “Il bar del tempo” (che, non a caso, vinse l’ultima – credo – edizione del Premio Montale).
Quella di Michela Silla è una voce poetica con tre caratteristiche sue – nettissime e visibilissime: sarda, di mare, di donna. Nelle poesie iniziali, certamente fra le migliori di un libro tutto di ottimo livello, eccone almeno due:
Vortica su se stessa
veloce di vento in mezzo alla piazza,
gonna bianca a pois -
una foto in bianco e nero.
Mi chiedo cosa ci sia di vero
nelle città di mare.
La luce cade a terra,
qualcosa nasce dalle dita
che si muovono nell’aria mentre danza.
Ecco poi la sua Sardegna marina (anche qui, solo una voce femminile in poesia sa scrivere così):
Canta la tempesta, si disperde
un attimo nell’aria di Levante
prima che il tuono esploda
e ci liberi davanti al mare scalzi,
bianca sabbia di luce.
Terra che tutto ricuce
Sollevando il tuono che urla in gola
Divora
“bentu e sali bentu e sali
terra de bentu e sali”
quando il sole piange l’oro
e poi va via,
i nuraghi prendono il buio
e una folle beatitudine
sbatte contro le tempie,
sono tua.
Già dopo le prime pagine – e poi, avendone certezza, a libro finito ecco: grazia, forza, sensibilità, autenticità, sono le cifre della scrittura di Silla – per questo così incisiva in chi l’affronta. Ne viene una carezza ravvivante, certa che la vita va vissuta appieno, mai seduta, sempre attenta, accesa e carica di pietas. Solo una donna – poeta – può scrivere così.
Nel verso finale della poesia per il nonno “La sedia gialla” ho scosso il capo, perché ho trovato con stupore un’eco (non cercata, e perciò così naturalmente potente) ungarettiana (“La notte non crede alla fine”).
A circa metà del libro sono stato nello sguardo di Michela per un uomo che vive in strada, nella domanda perfetta sulla vista, solo alcolica o visionaria altissima, di quell’uomo:
La collana di perle
e il cartone di vino
compagno fedele.
Sul muretto il corpo riposa,
lo sguardo gelato si ferma
sopra tutto:
vede niente o la rosa?
Io lettore sono stato in lui, con lui ho visto il nulla sullo schermo del gelo alcolico, eppure anche ho visto quella rosa. Cinema d’autore in versi. È così bello (scusate l’inciso da lettore entusiasta) potersi occupare di buona poesia.
Non scrivo quasi mai di poesia, non solo perché sono soltanto un lettore innamorato e non un critico, un vero tecnico della parola, ma soprattutto perché è quasi sempre un esercizio (almeno – per come lo faccio io) di ricerca delle accensioni, di ciò che veramente vale la pena di leggere, in testi che talvolta meritano, ma spesso acerbi (spesso testimoniando scarse letture da parte dell’autore, oltre che limitato talento) dove il senso, l’utilità dell’operazione (per l’autore del libro di cui scrivo e per il lettori del pezzo) è “trovare le gemme”, le parti di testo in cui l’autore possa guardarsi allo specchio nel suo profilo migliore, e ripartire da lì.
È talvolta un esercizio faticoso.
Nel caso di Michela Silla è invece così felicemente facile scriverne. Perché questa è la voce di un poeta.
Oltre la metà, c’è un pezzo che schiocca come uno schiaffo a risvegliare il lettore, nella sua saggissima e potente semplicità.
Lo aspettavi da sempre
questo ciliegio in fiore.
Ti era dovuto
e non lo sapevi?
Questa poesia potrebbe venire dal miglior Claudio Damiani.
Poi arriva il capitolo de “L’impensato, il figlio”.
Di scrivere belle poesie sui figli son capaci in pochi (ho nuovamente in mente il Rondoni di “Autogrill”, “Bartolomeo”, “Il terzo figlio”, o il Damiani di “Attorno al fuoco”).
L’autrice apre con una poesia che mi ha immediatamente riportato a “Il tempo si consuma” di Bertolucci:
Un momento,
luci alienanti della fiera,
meccanismo perfetto
fa girare il tappeto volante.
Non ti ho visto più
eclissato tra la gente,
cuore inghiottito dal silenzio
che fa il mondo senza te.
Poi sei apparso
vicino al banco dei panini,
la macchinina, la mia vita
in una mano,
mi hai sorriso da lontano.
Quel “Poi sei apparso / vicino al banco dei panini, / la macchinina, la mia vita / in una mano” vale già da sé il libro. Ma è il “Poi sei apparso” in cui ho ritrovato Attilio che – nella calca della Messa del mezzogiorno in cui lo aveva perduto – vede finalmente suo figlio (il libro è “Viaggio d’inverno” 1971).
Il piccolo di Michela fa domande, le domande dei nostri figli-universo, figli stellari sguardo inarrivabile a quell’età in cui (come ricorda spesso Hesse nei suoi saggi) sono e sanno essere qualcosa che la ragione gradualmente offuscherà per sempre (a meno che – come Michela – non siano dei poeti). Capite che versi come “Mi chiedi le rondini dove vanno, / se si perdono” non necessitano commento.
C’è anche il suo corpo di madre e di donna in una poesia della sezione per il figlio, il corpo-acqua di Michela, in costante contatto pensiero con la sua acqua marina con la quale fatichiamo a tracciare un confine:
Clemente è l’inverno
che disfa e ricuce.
Acqua rinasci, ti muovi,
apri tutte le porte,
mi trovi.
L’ultima sezione “Il cielo è fermo” contiene lo sgranare del suo – di Michela – rosario laico a contrastare il buio: elementi in elencazione a contrasto coi lati che perimetrano il Buio:
Non vinceranno
la foglia secca sul ciglio della via
o i muri grigi di periferia,
ma l’abbraccio, la preghiera,
l’odore del pane,
la dolcezza della sera;
la mattina presto l’aria pungente
che dice: sei ancora qui
e non hai capito niente.
Ecco. Quel che ti resta dopo aver finito questo smilzo e potente libretto è la certezza che abbia pienamente sortito l’effetto che Fortini augura realizzarsi – quasi a testamento – per la sua poesia (da “Allora comincerò” – in “Paesaggio con serpente”): “E chi aprirà i vecchi miei lessici e legga/ le carte soffiando la polvere, almeno / abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi / se la mattina è acuta, esca”.
Questo effetto di scuotimento, di risveglio è – nella mia esperienza trentennale di lettore – la funzione prima e ultima della poesia: ricordarci che siamo vivi.
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