di Roberta Tosi
Soltanto un’opera, una sola.
Intorno: la magnificenza della basilica di San Petronio a Bologna, con le sue altezze vertiginose, lo spazio dilatato a ogni passo e noi, che abbiamo il privilegio di trovarci accanto a una scultura pura e potente, un’installazione che è testimonianza e riflessione, memoria e dolore ma anche speranza e vita.
Un’opera d’arte imponente, in vetro, che pesa quasi una tonnellata e mezza e viene da lontano. Viene da lontano perché per arrivare qui, per arrivare a realizzare ciò che sta davanti ai nostri occhi, c’è voluta una vita intera. Una vita in cui Joan Crous, artista catalano che vive ormai da molti anni a Bologna, ha forgiato la propria arte decidendo che il materiale col quale avrebbe lavorato sarebbe stato il vetro, dopo essersi lasciato ammaliare dalle vetrate medievali in cui dominava la luce, il colore e questa materia così complessa. Una materia fragilissima ma anche rischiosa e difficile, sulla quale l’artista ha riflettuto per lungo tempo fino ad affinare e perfezionare una tecnica di lavorazione del tutto unica e personale.
Un percorso che lo ha visto raggiungere risultati importanti e riconoscimenti fino a compiersi in questa lastra monumentale.
Ma con quest’opera accade anche qualcos’altro, qualcosa di altrettanto unico, raro.
Si ripete infatti ciò che nel passato accadeva molto più spesso ovvero che l’arte diventava un’incidenza nella vita, un’interferenza, qualcosa che lasciava un segno.
Quando Duccio dipingeva una Madonna, tutti infatti correvano in piazza per ammirarla. E così è sempre stato per la grande arte, pensiamo anche a Michelangelo o a Raffaello…, perché erano opere capaci di accendere luci e fuochi, opere capaci di muovere e commuovere. L’arte contemporanea sembra invece aver perso questa capacità eppure oggi, nella basilica che la ospita, questo evento si ripete.
Oggi ci siamo mossi per quest’opera.
Ma il primo a essersi mosso è stato proprio il suo autore ovvero Joan Crous che ha sentito l’esigenza, l’urgenza di dare voce, di gridare il proprio sentire attraverso la sua arte. Non esiste infatti opera d’arte che non nasca da una necessità, da un evento nella realtà o nella vita che abbia sovvertito il nostro rapporto abituale con essa. È sempre un urto, un trauma a cui diventa necessario rispondere perché ciò che accade è uno scompaginamento dell’ordine della realtà.
Quest’opera nasce infatti da uno scompaginamento, perché quando nel 2017, nella sua terra d’origine la Catalogna si sono accese tensioni e violenze tra gli indipendentisti catalani e il governo spagnolo, Joan ha sentito che doveva lasciare la sua testimonianza. Voleva far comprendere cosa stava accadendo e lanciare il suo grido contro la guerra perché quegli scontri erano emblema di tutte le lotte contro le ingiustizie, le prevaricazioni, le violenze… Certo l’artista non avrebbe mai immaginato quanto invece sarebbe accaduto dopo: il Covid, la guerra in Ucraina, la barbarie in Israele, quella in Palestina e tutti i conflitti che improvvisamente sorgono continuamente come fuochi mai sopiti.
A Crous tornò allora alla memoria un altro simbolo che era ed è ancora urlo straziante, orrore contro tutti gli orrori: un’opera esemplare che nel 1937 Pablo Picasso aveva dedicato alla cittadina basca di Guernica, devastata dalla violenza di un bombardamento, a opera delle forze aeree tedesche e italiane alleate di Franco, e che aveva massacrato la popolazione inerme. Il dipinto imponente (di circa 27 m²), come i grandi quadri di storia del passato, privo di colore che non fosse il bianco e il nero, con la forza brutale di un’espressività esasperata, dai tratti frenetici e urlanti, divenne subito simbolo della violenza cieca che si abbatte su esseri umani di tutte le età, su cose, case, animali… Sembra che Picasso si sia ispirato all’8 maggio del 1808 di Goya, uno dei dipinti più iconici e potenti dell’arte occidentale, che rappresentava un episodio drammatico e sconvolgente della Guerra d’Indipendenza spagnola, durante l’occupazione francese di Madrid. Ma non solo, anche la Strage degli Innocenti del bolognese Guido Reni, torna nella sua Guernica, o il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis a Palermo… I precedenti purtroppo non mancano.
Credo che ciascuno di noi conosca l’opera picassiana, e abbia davanti ai propri occhi la brutalità rappresentata che non risparmia uomini e animali, il grido di terrore che ne esce e la disperazione, eppure al centro, quasi invisibile, giocando di trasparenze e fragilità, l’artista spagnolo ha lasciato il disegno di un fiore. Un fiore quasi in trasparenza, di cui si svelano i petali e lo stelo: neppure nella devastazione e nell’orrore la maceria deve essere l’ultima parola.
E se è vero, come ha scritto Didi-Huberman che «le cose dell’arte cominciano spesso dove finiscono quelle della vita», allora è proprio dell’artista ripartire da qui: da queste macerie, da queste orme, oppure ombre, rendendo visibile ciò che spesso non lo è.
Guardare l’ombra diventa allora inseguire il mistero della luce che l’ha creata.
Non è un caso che Joan abbia chiamato quest’opera L’ombra, ispirandosi proprio al dipinto di Picasso. Ma essa non rappresenta una semplice riproduzione o una similitudine della celebre tela, è piuttosto un’interpretazione attualissima, un'ombra che si staglia e si muove tra storia e memoria collettiva. L’ombra, simbolo di ciò che rimane, di ciò che si cela e sopravvive oltre la distruzione, diventa così un potente veicolo di riflessione sulla guerra e sulla pace.
Nel contesto della storia dell’arte, questa opera si inserisce in un filone di artisti che hanno utilizzato il simbolismo dell’ombra, del vuoto e della presenza assente per evocare le tragedie umane e i momenti di crisi. Pensiamo, ad esempio, ai lavori di Käthe Kollwitz che con il suo uso struggente del bianco e nero ha rappresentato le sofferenze della guerra, o alle installazioni di Anselm Kiefer, che spesso evocano la memoria storica come un peso e una speranza. O alle opere di Claudio Parmiggiani in cui l’immagine assoluta è ciò che resta dal trauma del fuoco ovvero polvere e ombra.
Adorno definisce l’opera d’arte come luogo di resistenza.
E Ernst Ludwig Kirchner, artista espressionista, diceva che:
«L'arte deve essere un grido contro la guerra, un battito di cuore di un’umanità che resiste».
Il lungo lavoro di Joan è testimonianza di tutto questo. Un lavoro iniziato circa 5 anni fa e diventato questo pannello verticale in altorilievo di grandi dimensioni (8,20 x 4,10 metri: le stesse misure della Guernica di Picasso, proiettato su uno schermo cinematografico), ottenuto dalla fusione di polvere di vetro recuperato, tutto vetro riciclato, per ricavarne milioni di piccole schegge.
Un’installazione composta da quasi 800 mattonelle cotte in stampi di sabbia.
Polverizzare il vetro, fonderlo allora con la sabbia e cuocerlo ad altissima gradazione, è la sfida alla distruzione ultima, è fenice e redenzione. Guardando a Guernica, Joan, ne ha ripercorso le linee e le asperità quasi fossero confini su una carta geografica in cui imprimere frammenti di storia e di vita come reliquie.
Come se in un’ipotetica visione dall’alto, quasi fosse un drone, ne potesse ricostruire una mappa, i confini, in realtà ne ha così ricostruito la ferita. L’ha ricercata in quelle mattonelle, una a una, in una tensione continua e un numero impensabile, in cui poter sovvertire la forma, ricrearla, avvertendone tutto il peso, non solo quello fisico, e la leggerezza. Ha ricomposto lo scarto. Quello della memoria, certo, ma anche quello dei rifiuti, dei frammenti abbandonati: cannucce, schegge, boccette di vaccino e perfino proiettili…
Scorie, residui, schegge taglienti come rabbia (quella che sorge di fronte a certe crudeltà), e polvere che non si consuma ed è ciò che resta presentandosi, come diceva Derrida, come inconsumabile. Ha così fossilizzato e cristallizzato l’inconsumabile con la polvere di vetro in un procedimento elaborato da lui ideato e denominato ‘embulcall’: un avvolgimento, ombra essa stessa della materia che impasta tra anima e vetro.
Grigia apparentemente, dai toni monocromi come il dipinto picassiano, l’opera di Joan Crous è una scultura armata di una sapienza paziente che lascia affiorare i suoi vuoti, le sue forme colme, le stupefacenti fragilità della materia corrotta e incorrotta esponendole alla vita. Ed essa non si rivela nella sua interezza se non a uno sguardo altrettanto paziente, capace di percorrerne i sigilli e gli smarrimenti, le inquietudini e le speranze. Perché se a un primo incontro l’opera resta quasi un enigma da interrogare, ecco che appena uno spiraglio di luce l’attraversa, essa si accende prendendo forma e rivelandosi in pienezza come una vetrata medievale. Un movimento improvviso sembra sorprenderla e animarla, evocando immagini e dissolvimenti.
Si ritrova così il grido nell’orrore ma anche l’irriducibile, struggente, forza e bellezza perché nulla si smarrisca o sprofondi nell’oblio. E l’angoscia si muti in preghiera.
«Anche nella creazione artistica - afferma lo stesso Crous - c’è guerra»: la lotta perché l’opera nasca, si separi da tutto il resto, trovi lo spazio necessario nell’affondo del tempo e muova la sua personale battaglia per dare luce e speranza. Una guerra diversa, come un’ultima definitiva parola contro tutte le guerre. E non può farlo nella sfacciata evidenza, può accadere solo nell’ombra, quell’ombra che come un velo preserva e cura.
Crous ci invita ad andare oltre: l’ombra diventa così un’immagine di speranza e di pace, quella che abbiamo sentito risuonare tante volte dal nuovo papa Leone XIV e prima da papa Francesco.
La rovina, la polvere, la scheggia, non sono allora la fine ma diventano segno di un nuovo inizio.
La guerra, diceva Victor Hugo, è una follia collettiva e l’arte ha il dovere di denunciarla.
*Ombra di Joan Crous è stata esposta in San Petronio a Bologna dal 26 aprile al 29 giugno 2025*
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