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“Oltrecolore” di Antonio Spadaro

di Roberta Tosi

Antonio Spadaro, Oltrecolore. Hopper, Rothko, Warhol, Basquiat, Vita e Pensiero 2022

Che colore abita l’Oltre? Riposa forse nell’ombra o si eleva tra gli strati, nelle sovrapposizioni, nei contrasti… Quale invisibile anticipa? Il colore porta l’indicibile con sé, lo trattiene tra le infinite sfumature e nei riflessi iridescenti, lo preserva come fosse luce che annuncia la vastità del visibile e una materia altra, che sa di trascendenza.
Nel suo ultimo libro, Antonio Spadaro racconta così la sua esperienza col colore e con quegli artisti che si sono inebriati della sua presenza, della sua irraggiungibile essenza. Parte dalla memoria, dai ricordi che si insinuano nella pelle, si fanno odore e carne, vissuto, poi tradizione e cultura. Come quella di un tenerissimo racconto giapponese dove i cromatismi diventano «un verde giovane, un azzurro vecchio sei anni, un giallo che fa il girotondo, il blu del cielo delle sette di sera».
E nel leggerlo sembrano risuonare la «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, Io dirò un giorno le vostre nascite latenti…» di Rimbaud, dove le Vocali diventano colori di lance, ghiacciai, pascoli, sangue, silenzi attraversati da Angeli e Mondi.
Mondi che si scorgono in alchimie di segni e si lasciano cogliere anche nel titolo di questo libro, che presenta un neologismo coniato dall’autore per cercare di scoprire quale Mistero trattenga davvero la materia cromatica.
Il suo segreto sembra permanere sospeso, al di là della domanda. Ma nella copertina esibita e voluta se ne cela una traccia, proprio in quel blu oltremare di Yves Klein (mare sì ma oltre, perché anche in questo elemento della natura si coglie la dismisura e l’invito a guardare più in là), che del blu aveva fatto la propria vocazione. E dagli affreschi di Assisi visti da Klein al blu “vuoto pieno”, nulla che in realtà afferma, l’autore viene sospinto verso Raymond Carver, uno dei suoi scrittori più amati, il quale, non a caso, aveva intitolato una sua raccolta di poesie: Ultramarine.

Colore dunque che si fa storia, metafisica ma anche spazio e ambiente del sacro, che abita il sacro ed è indice di un altrove geografico sì, ma soprattutto simbolico. Altrove che si scopre tensione e possibilità: I dwell in possibility, scriveva Emily Dickinson.
Sembra allora non essere l’artista a cercare l’accesso al mondo tramite la sorprendente giustapposizione di toni cromatici ma, per Spadaro, è il colore stesso a raggiungerlo nel momento in cui lo scopre. Un incontro epifanico dove l’autore vede l’«intuizione di un mondo a venire», ritrovandolo nella pittura di quattro grandi artisti, quattro protagonisti dell’arte del ‘900 come Edward Hopper, Mark Rothko, Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat.
E in questo percorso di immagini e parole dove, alla fine del libro, si incontra anche una riflessione personale in cui sfilano colori come note di un’unica sinfonia, Antonio Spadaro predispone quattro affreschi. “Ritratti” che già nell’indice riveste di sacralità definendoli icone: dell’attesa, della luce, del divino altrove, del lato oscuro, spostando subito l’attenzione su ciò che, nella tradizione ortodossa, viene posto con cura nell’“angolo bello” della casa. Ci vuole condurre lì, per guardare a questi interpreti magistrali dell’arte e alle loro opere come se ci accostassimo a qualcosa che diventa evidenza verso Altro, che rimanda per sua natura ad “altro”. Pavel Florenskij scriveva che l’icona è sempre più grande di se stessa perché quando è meno di se stessa resta solo la materia, la tavola dipinta. Nel libro di Spadaro si palesa così l’evidente grandezza di questi artisti affinché non ci si fermi alla “tavola”, alla tela ma si possa intravedere la loro ansia insondabile, la fame d’infinito, il puro desiderio di una bellezza che strazia e a volte inorridisce ma non arretra, né si placa.

Il cielo qui è vicino, verrebbe da dire pensando a Rilke, ma non ancora raggiunto.
Neppure quando l’attesa è dilatata quasi all’estremo, in un’assorta contemplazione, come in Hopper, dove lo sguardo si scopre sempre troppo all’interno o all’esterno della rappresentazione. Opere rapite in cui l’essere umano è protagonista tra dolci malinconie e quiete solitudini, nell’insaziabile bisogno di salvezza che tradisce e inquieta la calma apparente, facendo vibrare di poesia e grazia le immagini sospese dell’artista americano. Si coglie così, tra i dipinti, un battito dell’esistenza che non si placa e si fa stupore e luce, per plasmare la realtà e accostarsi alla sua essenza inafferrabile. Un desiderio di purezza lo sovrasta e di sacralità, che non esita a intrattenersi oltre la soglia, le finestre, l’azzurro.
Un respiro drammatico, intenso, sprofonda invece nel colore delle opere di Mark Rothko. Non vi si può sfuggire. La vaghezza non gli appartiene e lo sguardo resta incatenato nelle sue sottili tramature. Ci si immerge nella tela. No, ci si consuma nella tela, assorbiti dai puri cromatismi impregnati di strati su strati, di pianto cupo e di sospiri opachi. Il colore qui, tra le velature, è quello del buio, qui la dismisura oscura e, nel punto più profondo, appare tanto intollerabile da farne cogliere il baratro, l’abisso insondabile verso Dio o il nulla in cui Rothko, scriverà l’autore: «si è teso fino a trovare luce nel nero […]».

Si giunge così a quella luminosità differente che si diffonde, senza filtri, nelle icone pop di Andy Warhol. Del divino altrove, lo definisce Spadaro in cui appare un visibile ostentato e ripetuto ossessivamente fin quasi alla nausea. Effimera, narcisistica, sembra non esserci spazio per Dio nell’opera di Warhol. E invece tornano le immagini sacre, si perpetuano i simboli che indicano quanto fosse presente nell’artista l’aspetto spirituale, la sua segreta religiosità. Eppure, perfino sulle sue “ultime cene” leonardesche apporrà un cartellino per indicarne il prezzo, indicando come ogni cosa, alla fine, possa essere in vendita, anche il sacro. Verrebbe allora da chiedersi se forse, proprio con la loro presenza, in questa costante contraddizione, si affermi quel bisogno di eterno, di salvezza che lascia aperta la domanda: se Dio c’è dunque, non è anche qui?

L’ultima icona, quella del lato oscuro, Spadaro la riserva infine a Basquiat, alla sua tragica e fragile parabola che consuma nel colore e in disegni, in dipinti, che aggredisce tra graffi, ferite, graffiti. Un’anarchia espressiva domina la sua opera, visioni allucinate in cui trapela il grido estremo della sua esistenza, il desiderio di liberazione, di innocenza. Consuma l’esistenza e l’arte in ventisette anni (a un gigante come Masaccio era toccato lo stesso destino), e la consuma in vette rapidissime tra i dirupi, sfiorando il paradiso, sprofondando all’inferno. Ventisette anche gli anni nell’angosciosa ricerca di un senso che possa orientare la propria vita verso un Oltre definitivo e agognato, fino all’ultima goccia di sangue e forse di colore.
Ci lascia così l’autore, tra il suo rosso, il giallo, il bianco, il nero… e le loro frontiere.
Ma verrebbe più da pensare di aver acceso alla fine dei bagliori, orizzonti che possano, come l’arte, dar forma all’inespresso e ne inseguano, la nascosta verità.

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