di Roberta Tosi
Pochi passi per entrare in uno spazio altro, in un tempo altro. Pochi passi per essere investiti dall’odore intenso di colori a olio come fossero appena stati stesi, dalle vernici che penetrano l’aria e quasi mozzano il respiro.
«Le immagini si formano, non si fermano». Lo aveva scritto Pierre Fédida a fine ‘900 ed è in questo movimento ininterrotto che ci si ritrova sopraffatti appena si supera la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia. Un faccia a faccia inebriante con la pittura, la grande pittura e non solo per le dimensioni titaniche delle opere esposte ma perché qui l’arte è “l’istante d’abisso della parola”, la prossimità tra l’immagine e il nulla, l’evidenza impenetrabile.
Anche Anselm Kiefer, come Cézanne e molti altri, per molto tempo ha inseguito lo chefs-d’œuvre inconnu, vivendone fino in fondo il fallimento, l’originaria impossibilità, per comprendere col tempo quanto sia esaltante invece mostrarne il processo, il formarsi dell’opera mai, mai finita.
Così quando alcuni anni fa si ritrovò tra le mani le pagine del filosofo Andrea Emo Capodilista, l’artista comprese come quel ni-ente con cui iniziava sempre la sua arte, in realtà era tutto, l’annientamento che conteneva già la sua rinascita. Tra quelle righe, negli spazi interstiziali tra il respiro e il colore, girava la chiave e gli si svelava il sigillo per vivere la sfida col fato accettando la chiamata con la storia e la terra dei dogi.
Abissi esaltanti tra cieli, acque, terre e fuochi per immaginare la sua Venice Cycle, faccia a faccia con secoli di capolavori, di lotte, conquiste, distruzioni, resurrezioni.
E prima di accedere alla sala imponente, quella dello Scrutinio, in cui Kiefer mostra la sua «lite tra il mondo che l’artista deve erigere e la terra che si chiude», come lui stesso afferma, si deve attraversare un passaggio, quasi fosse una prova iniziatica da cui ogni cosa possa prendere avvio.
Risuona la frase che dà titolo alla mostra Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce. La vedi incarnata, vivente nell’opera, in un antro che è principio del viaggio ma anche alcova, ed essa accoglie e respinge. Un movimento trascinante tra rami, legni, colori, vernici, oro e libri bruciati, destinati a svanire come ogni cosa ma spezzando le tenebre nella loro ultima, definitiva luce.
Si prende fiato e si varca la soglia impossibile per ritrovarsi avvolti da una saturazione dello sguardo che cerca un principio ma non lo trova, cerca una fine ma non la trova. C’è un mare che sovrasta e percuote, un’irradiazione fatta di piccole pause tra un’opera e l’altra, per poter recuperare e lasciarsi avvincere da questi immensi teleri, come potrebbero chiamarsi qui nella miglior tradizione veneziana. La storia della Serenissima scorre così nelle vene della sua laguna, sangue pulsante che diventa oro e luce in un opus alchemico da forgiare e forse velare tra il piombo, le rovine, i sommergibili, i carrelli, gli abiti. Perfino in una bara, quella vuota del santo patrono… l’omaggio dell’artista tedesco al suo pittore amato, ovvero Tintoretto, si svela anche così.
Ogni capolavoro ha le sue ossessioni e nell’artista tedesco torna la scala di Giacobbe, simbolo ricorrente in tante sue opere, per salire e ridiscendere dai gradini traballanti e insicuri della storia, dell’arte, della vita: la perfezione, sembra suggerire, non è fatta solo di ascese ma di cadute e lotte. Evoca quella con l’angelo, di cui sembrano restare le tracce nella presenza delle scarpe disperse sulla tela. Una lotta dura, fino allo sfinimento che apre ferite nella carne e lacrime estreme. Un corpo a corpo con l’anima, la materia, il mistero «…più e più volte, e poi ancora», afferma Kiefer. «Non ho rinunciato».
Non è questa, forse, l’arte?
E se poi vai a cercarne le evidenze, scopri gli angeli. Ti accolgono quando entri, attendono mentre te ne stai andando ed è come se l’infinito, d’un tratto, si facesse custode della visione e ne preservasse l’oscuro bagliore.
Ti accorgi così del respiro comune, della luce preesistente che abita queste tele e si muove pervadendo poco a poco perfino le sagome accennate dei palazzi veneziani, svelandosi nell’esaltazione della pittura stessa, satura di una costellazione inesauribile.
In queste sale dove anche Tintoretto affrontò l’eterno dibattendosi nella moltitudine tra angeli, beati e umanità redenta, scopri che la sfida con l’immenso, in fondo, è appena cominciata.
Brucia la Venice Cycle dell’artista tedesco, brucia nella tensione delle sue stratificazioni, dei secoli invocati che si fanno, si vivono contemporanei e ci sei tu, che li attraversi tutti come su un vasto palcoscenico, divenendo parte di un’opera in fieri, presenza che è già assenza, futuro che è già storia. Rovina, direbbe Kiefer, che non è mai fine.
Gentile dott.Tosi, ho visitato, anzi vissuto l’esperienza indimenticabile ,l”inviolabile chiarezza” e da giorni cerco le parole per vestirla.
Le ho trovate nel suo scritto che e’ all’altezza dell’opera grandiosa di Kiefer e la ringrazio .