di Roberta Tosi
Padri - Omar Galliani e Luca Giovagnoli - Galleria Augeo Art Space di Rimini
Potrebbe bastare una sola opera per sentire l’insorgere originario dell’arte, solo una, per rapire l’appoggio sfidante e maestoso che infrange il vuoto e il silenzio. Poi il respiro o il grido, o entrambi, nello stesso generativo istante. L’incontro, la rivelazione, in cui tutto può accadere, è tra due mondi, destinati a separarsi sempre. Eppure in questa separazione c’è dolore sì, ma anche nascita, amore, crescita, presenza incarnata pur nell’assenza.
Mi vengono incontro così le anime nascoste nella mostra Padri, alla Galleria Augeo Art Space di Rimini, apparizioni che s’inseguono tra la materia obbediente, i segni latenti e la luce ultima, quella in cui Dio deflagrò, per dirla con Nancy, lasciandone una scintilla per ciascun essere vivente e la nostalgia per l’unità perduta. Un’esposizione che dilata irrimediabilmente lo spazio, accende le sale vivificandole in un movimento ondoso, e interroga, come fa sempre la grande arte, senza sconti o ambiguità in un’epoca in cui di entrambi se ne fanno banchetti.
Lo scrive nella sua presentazione Davide Rondoni, che non si ritrae mai dalle questioni più incalzanti della vita e della nostra società e che ho il privilegio, il dono, di conoscere da qualche tempo. Una esposizione, nelle sale seguite da Matteo Sormani, fortemente voluta da Rondoni e che affronta un tema ardito, delicato e disturbante: «Ho chiamato due artisti, Omar Galliani e Luca Giovagnoli, quasi supplicato, loro che grandi artisti e padri sono, segnati, feriti, incasinati, vivissimi, che ci dessero un segno, opere, visioni. Che ci facciano vedere d’essere anime e corpi in viaggio TRA due mondi, con uno e mille padri. È nel cuore di un padre che il numero non ha tirannia. Ama smisuratamente, ciascuno e qualsiasi, senza contare».
E avverti il Padre, quello con la P maiuscola e poi quelli minori che ne sono, o dovrebbero essere, l’eterna propagazione: “uno e mille”, che perdi, ritrovi o incontri, e il padre che neghi e mai come oggi rinneghi.
Ma nell’entrare in questi spazi che varcano ogni volta la soglia dell’arte e del suo mistero, come quello di ogni paternità e, mi verrebbe da aggiungere, di ogni maternità, mi torna alla mente la nota frase di Telemaco, figlio di Ulisse:
«Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre».
Un abisso, un vertice si cela in questa parola che risuona quasi immutabile nel tempo, in ciascuna lingua, e resta intraducibile in ogni segreto sentire mentre risale dal fondo più intimo di ciascun io…
Ecco allora opere come fari o sentinelle, a parlarne per prime o a raccontarne, tra colori e grafite, nei silenzi eloquenti di una pittura nuda, iconica, che attende.
Se è vero infatti che nell’arte ogni attimo può essere epifanico, lo è anche quello in cui s’incontrano occhi, volti, trasparenze nell’aria o nell’acqua, inquietudini che s’insinuano lì, tra i cieli precipitati di Omar Galliani, il dilatarsi dei suoi segni anticipo d’infinito e del deserto della materia stessa, folgorata nella sua alba. Nessuno sguardo apparente a guardarci, a guidarci, nessun invito esplicito ad accostarci, come se dovessimo scoprirne l’accesso nascosto o dovessimo soltanto trattenerci sulla linea invisibile di un’indicibile emozione e del silenzio che dipinge la luce, mentre trattiene le stelle nel nero assoluto. Un’aura sacrale le avvolge e s’insinua tra i tratti a carboncino, l’olio, la matita, la tela, la tavola… bellezza che si libera e sfiora le labbra degli amanti, i firmamenti in cerca di santità, l’ossessione e l’apparizione.
Rinasce, tra le mani di Galliani, un sapere antico che ripercorre l’arte, il disegno rifondato dei maestri del Quattro o Cinquecento, quella “maniera” nel senso proprio di stile che è dentro e oltre la temporalità. E il segno diventa così un viaggio, una scoperta ma anche una spada, potente e delicata, affilata e seducente per osare e trattenere, per non disperdere ciò che inevitabilmente prenderà la propria strada e incontrerà nuovi sguardi, visi e mani. Dipinti partoriti come figli, avrebbe scritto Munch, e che al pensiero dei figli fanno tornare quasi fossero «[…] cose rifulgenti che nel loro abbandono hanno stretto a sé il cielo», per dirla con Rilke.
Abbandono è una parola dura che sfiora ogni superficie, ferisce e comprende l’essere di ogni figlio, di ogni padre. E vorresti tornare bambino, ritrovare le carezze di quell’andare mano nella mano e nell’infanzia di ogni tempo, quasi fosse un gioco, un miraggio che appartiene alla tavolozza ardita di Luca Giovagnoli, mentre la incontro nelle sale successive. Ogni opera è un racconto, un fermoimmagine nella vita di ogni vita che fissa il tempo in un fotogramma elettivo. Verrebbe quasi da pensare a un realismo magico sotteso che s’insinua tra i toni accesi, quei luminosi celesti, il nero risoluto, i cromatismi essenziali e gli spazi, a tratti hopperiani, che avanzano come finestre spalancate su un altrove inquieto e domestico.
La pittura di Giovagnoli palpita di un’aria satura, vibrante, da cui si libera e si libra come in una danza di feroce e dolce nostalgia. Se ne coglie l’esilio e il desiderio, il gesto funambolico dell’arte e di ogni gesto generativo, l’avventura e il sogno dei giorni di festa e di occhi capaci di stupirsi dell’attimo da fissare, proprio quello, come se a tutto fosse riconoscente. E la sua arte si lascia così colpire, urtare dalla realtà, dal sapore del suo mare, dai moti incauti del vento per poi riviverli in un universo onirico da riscrivere ogni volta, uguale e sempre nuovo.
In questo accidentato percorso che ti insegue e scuote, avverti allora come qui, tra queste sale, sia racchiuso il lento infuocato lavorio dell’arte, e il segno, forse, di quell’amore impossibile, estremo, impensabile, “forte come la morte”, altissimo e miserissimo, di ogni nascita, quella nell’arte, quella nella carne.
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