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Lettera a Marco Vitale di Vincenzo Gambardella

La dolce battaglia

Marco Vitale, La strada di Morandi, Passigli Editore 2024

di Vincenzo Gambardella

Caro Marco Vitale,

che cosa ci unisce? Bene, immaginazione, letteratura… Le poesie migliori sono commoventi. Qualcosa ci visita, si presenta, ci abita, trabocca in lacrime. “Dare parole alle lacrime”, scriveva Shakespeare. È una grazia l’innocenza, e la bellezza è vera se si fa tramite, quando si fa tramite. Una persona è bella se si fa tramite e si distingue, si riconosce, per la scia di enigma che porta con sé, e induce a riflettere. Noi siamo trascurabili, eppure il mondo non può fare a meno di noi, se siamo nati, e se la bellezza opera in noi. Dio stesso non fa a meno di noi. “Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi”, recita il Salmo 8.

Ci vuole l’innocenza per vivere la bellezza, è segreto di luce, tu dici. Perciò non è semplice essere gioiosi senza l’innocenza, senza questa grazia che ci muove, che fa prodigi. Occorre coraggio per viverla, si sa, un coraggio particolare, che ci rende forti, persino insistenti, nonostante il patimento: “La salvasti una sera / sotto i bombardamenti alleati / che infrangevano tutto / anche la tua innocenza”. Cosa si salva? Una fioriera! Dice la poesia, correlativo oggettivo di tutta una vita! A questo punto si presuppone un peso, sebbene dolce, quello della contemplazione, il peso di vivere, della pietra docile che si erode: casta angolarità, la chiami tu. Oppure si tratta di un fiore: “Non avevo mai visto così solo / un angelo sorreggere una rosa / di luce come un curvo / Atlante il peso e i sogni della terra”. O della neve: “… il peso di una neve / benefica o una carezza / tra il marciapiede e le stelle”. Le parole sono precise, incollano i luoghi all’anima, non tradiscono: “Sembra così facile / in una sera come questa amare Milano / sembra non essere mai stata così nitida / e spenta delle voci che amandola / ne tessevano l’ombra”. L’ombra rimanda al pudore: “Non erano / non erano maliose le tenebre?”. Chi diceva che la poesia si riconosce subito? Che ha una sua evidenza? Che il vero poeta non sfugge?

Fin qui “Canone semplice”, uscito da Jaca Book nel 2007, e ripubblicato nel grande volume “Gli anni” (Aragno Editore, 2018) comprendente buona parte della tua opera. Ma ora è uscito “La strada di Morandi” (Passigli Editore, 2024), ne scrivo senza interruzioni, senza qualcosa che si frapponga fra me e il testo, in un flusso ispirato che è metodo mio e che mi consente di aderire in legame produttivo con le parole. Parole screziate (le tue)! Le definisco così, in quanto mantengono una certa venatura di colore, incisa e vibrante dentro, che le attraversa. Vita che solca ed esce dalla pagina, s’impone con un movimento di grazia che porta una ferita d’esistenza in superficie, necessaria. “Una ferita, sarà poi questo / a convogliare il vero e il falso? […]”, pag. 100. Stimmate del poeta! Ma che ci permette di proteggerci dai nostri riferimenti culturali comuni, che sono modelli di contrapposizione, forze in campo che usano il linguaggio per deformare. Non c’è verità, nessun dialogo, bensì battaglia al fine di emergere sullo schermo di tv e web o sulla carta stampata dei quotidiani. Dimentichiamoci di noi stessi, è ciò che penso, mettiamo al centro i libri, che è quello che dici anche tu, in modo smagliante, nella poesia d’apertura, intitolata Il taglio del bosco.

Forse tra i libri, tra i romanzi
che s’aprono a un incerto
dopoguerra rimani
ancora un poco. E non è tutta
ingiallita la carta, le parole
che premono in un varco
fervoroso di anni, qui
sta certo il bene, un bene
così fragile un lume
che pur dura trovandoti
e immaginandoti

pagina dopo pagina

Attraverso i libri scopriamo che qualcuno ci manca, la sua mancanza è il nostro bisogno, allo stesso tempo siamo noi che manchiamo, anticipo di fine, esercizio di morte per noi che siamo ancora qua a vivere. Si registra il legame, che è molto più delle letture, tuttavia questo è fatto di quelle, e non solo. Perché? Se lo sapessimo non vivremmo, non ci aspetteremmo ancora vita da vivere e da sorprenderci. “[…] Seccando rapide le tinte nella malta / vi hanno fatto corpo e incanto / in quella domus tra le vigne […]” (pag. 20). Ogni parola è al suo posto, occupa il giusto spazio di senso, di durata nel tempo poetico in cui s’inscrive, occupa il posto che le spetta. È nell’esattezza da tessera di mosaico il suo canto, la sua perizia. E come ritorna l’azzurro (insieme alla sorella luce)! “Questa sera di giugno all’ora azzurra […]”, pag. 22. “[…] e poi l’azzurro di Novalis […]”, pag. 25. “[…] per le sue pagine ferite / dall’azzurro e le ombre […]”, pag. 32. “[…] l’acqua riflette come in sogno il puro / azzurro che si posa sull’orlo della spuma […]”, (traduzione di Francis Jammes), pag. 58. “[…] o a un dopo solo il tratto / nell’azzurro viveva e le strida / più acute sulle reti […]”, pag. 71. “[…] e come in sogno il mondo era d’intorno / azzurro d’acque e di oceani / corso dai venti […]”, pag. 75. “[…] È tutta qui nel suo risveglio / levantino la piazza e tinge / vivida un azzurro variegato di voli […]”, pag. 88. “[…] quelle / non altre pagine avevamo / come tema ai pensieri / non altra viola di affannose corde // non altro azzurro”, pag. 107. “[…] – facendosi più liquido l’azzurro / e annullandosi / nell’insondabile attimo – […]”, pag. 110. Mi chiedo, ti chiedo: l’azzurro ha funzione di stemperare (o schiarire) la parola che arriva già stremata sulla pagina? Edificata com’è sul passato, segnata dal ricordo, dal non più, invasa dalla dolcezza. Forse ne “Gli anni” questo non era così evidente. O, ancora: si tratta del colore di un’aspettativa, di un futuro aurorale a cui aspiriamo?

E quanto è dolce la sera, un canto che intenerisce, si rimane muti ad aspettare il giorno, di nuovo limpido dopo la pioggia, dove una città prende il posto dell’amore, assorbe tutto il tempo di contemplazione che manca, tutta la mancanza che è in noi, e che gli altri sono per noi. È deciso il passo della poesia a pagina 87, non perde una parola del suo dolore, perché fiorisce nel segreto delle cose. Guarda da lì.

Questa acquata di giugno nel silenzio
di una città così lontana e prossima
dove ti invito e so che non verrai
questa inquieta dolcezza questa strana
impressione che tu dorma
e scorra il tempo, s’avvisa

questa vena decisa
senza più scansione
un cane nell’opaco che si perde
talora ma non fiata
è troppo giovane ancora
e in sé più a lungo duole

Parole come amore
da non dirsi
se non di rado sottovoce
perché amore pensavi è nelle cose
terrestri, nel loro schiudersi
segreto come fosse

un’ora che è già luce e non luce

Ma forse, caro Marco (mi affido qui, al limite, in chiusura, all’ultimo momento, quello delle rivelazioni, a una sorta di post-scriptum che ha il sapore delle conquiste inaspettate), la risposta è in Morandi. Come fare a non vederla la strada di Morandi? Il colore dell’artista saldamente novecentesco è poetico e resta, la forma è poetica e resta, negli accostamenti dei celebri quadri di nature morte, in cui la quasi compenetrazione di piani e oggetti è più serrata, più materica, risultando amorosamente riuscita perché lirica, metafisica. Sarà polverosa quella strada ma resta, occorre uno sforzo per guardare attraverso.

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