di Vincenzo Gambardella
Daniele Gorret, Reliquie, Einaudi, 2023
Caro Daniele Gorret,
il tuo libro mi ha fatto venire in mente mio nonno, che aveva, appeso al muro della sua casa di Napoli sopra il comodino, un minuscolo granello bianco, della grandezza di una briciola di pane, chiuso in una custodia di celluloide, o similvetro, contornato di una cornice di stoffa. Un giorno mi avvicinai per esaminarlo meglio e chiesi a mio nonno cos’era. Lui sorrise fra sé, senza guardarmi. Fu mia nonna che mi rispose, anche lei sorridendo. “È una reliquia della croce”. “Davvero?”, dissi io. “Così dicono”, aggiunse lei, intanto che mio nonno continuava a leggere il suo Corriere, come se nemmeno lui ci credesse. Dunque (e arriviamo al tuo libro), quello che conta è la vocazione al dolore della reliquia, in funzione di Salvezza e di compagnia, compagnia che prelude alla Salvezza nostra, sicura. Non è in sé e per sé: il sé è trasceso. Lo dici tu stesso, nella calibratissima prefazione al libro: “[…] si desse senza corpo, non si darebbe esposizione, si desse inanimata, mostrarsi sarebbe da insensata”. Cosa vediamo di essa, del sangue, di un dito, di una mascella, di un ciuffo di capelli? Di quello che tu chiami corpoanima?
Ho fatto fatica a staccare gli occhi da “Reliquie” (Einaudi, 2023), rigoroso e fantastico insieme, ma presto ho capito il furioso motivo della mia concentrazione, e l’ho riconosciuta nel sacro. Quella la sua sede. Il sacro tradotto in qualunque cosa. Specchio che riflette il mondo, o il particolare, che è esso stesso reliquia. Per dire che è in atto un artificio, per metterlo in vista, dire che quello che vediamo è illusione, ma che non ci risparmia il dolore, fa male ugualmente, come la commozione che ci prende davanti a un saluto, un addio. Reliquie e ancora reliquie. In questo libro non si fa finta di niente. Tutto è profondo, tutto è incarnato, limpido, tutto è segnato. “Facciamo una sosta, tanto siam presi da amore” (p.12). La sosta è la poesia. Non farcela è il senso, ci sostiene una reliquia. Il sacro è più grande di noi e ci domina. Viviamo questa fatica di capire. Volontà nostra di trascendere tutto, di essere totalità allo stato di finitezza. Come ultima cosa che ci sopravvive.
Ha ceduto la vita stanotte, ventuno novembre
- all’alba di oggi che gelo su tutta la valle -
difficile dire se caduto dal tetto o cacciato:
domande che non hanno risposta è meglio non farne
perché sanno di spreco e soprattutto son stolte:
morte è talmente più grande
di tutte le cause e occasioni,
morte è talmente più pura,
morte da uccello talmente più bella.
Morte ha conquistato l’uccello
e conquista qui significa freddo
vuol dire durezza: tremenda durezza l’ha colto.
Significa addio ai movimenti leggiadri
al moto più ardito di tutti: il volare.
S’intende che qui morte vuol dire:
morte fissata, corpo talmente composto
da esser sottratto a richiesta, all’incerto, a paure
Questi i primi versi della poesia “Il passero a terra” (p.12).
A pagina 37, invece, riporto la prima strofa de “Il vocabolario Rigutini”.
È lì posato il vecchio Rigutini
vocabolario greco-italiano e italiano-greco
compilato per uso delle scuole,
vera rarità per gli studenti
che persero un po’ di vista a consultarlo,
pubblicato a Firenze da Barbéra
nell’anno millenovecentotrenta ormai remoto.
È lì con rosa ed ape in copertina
(forte copertina di cartone),
è lì disoccupato di studiosi,
negletto da studenti ginnasiali…
Lo usò il padre (sarebbe centenario)
ed ora è in casa un po’ come ricordo
un po’ come curiosità per gli ospitati
ma soprattutto è lì come reliquia
e potere di reliquia non è poco…
Qui, è come se quella cosa che è per me l’avessi lasciata, come se fosse stata abbandonata a sé stessa, e ce ne fossimo andati tutti. È come abbandonare il dono che avevo ricevuto, che era sempre in atto, e ognuno si fosse distratto da esso. Questo il senso della malinconia, che è nel senso particolare della reliquia.
Al telefono mi dici che ami due parole, che le ami anche se non si usano più, sono pudore e gloria. Mentre parli penso che sono strettamente connesse. È il pudore che copre il nostro desiderio di gloria e forse è questa l’origine delle nostre nevrosi, perché la gloria appare irraggiungibile. Più dell’amore! È più facile raggiungere l’amore che la gloria. In quanto occorre un sacrificio per raggiungerla, un disperato gesto di sfida al mondo, e la poesia vuole afferrarla. Infatti la reliquia è il segno di questo, trionfo e gloria di questo. Essa continua a vivere proprio come estrema estensione del Cristo.
Allora tutto il vissuto nostro non è perso, porta una durata rarefatta di tempo, che sia vecchio quaderno di scuola, o disco di musica, o foglia fra pagine dantesche, o immaginetta sbiadita di arcangelo, o tendina strappata, o specchio macchiato, o dimenticata radio silenziosa, cose che si sommano in una concrezione consolidata di attimi, moltiplicata e sublimata altrove, per dare unità, continuità alla pienezza che siamo. Frammenti che andranno a moltiplicarsi agli altri infiniti frammenti sparpagliati e confusi, qua e là, nello spazio, nel silenzio. Perché qui è tutto silenzio, per dare voce a quello che siamo.
In ultima analisi reliquia è scandalo, scandalo della speranza, avrebbe detto Carlo Bo, nel senso che qualcosa resterà di noi, sebbene degradato, storpiato, povero, falso, diviso, oppure semplicemente sgualcito, qualcosa di partecipato in un segno, che vibra ancora e resterà. In definitiva, il lavoro poetico di “Reliquie” consiste nel trasformare in ordine interiore il tempo (tempo contenuto in forma di reliquia, tempo che essa ci testimonia e ci restituisce). L’argomento è misterioso, l’essenziale appare irraggiungibile. E il paradosso potrebbe essere che niente avviene di colpo, ma in un attimo ci accorgiamo dell’abisso.
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