di Vincenzo Gambardella
Vito M. Bonito, Acrobeati, La Vita Felice, 2023
Caro Vito M. Bonito,
c’ero anch’io alla presentazione del tuo libro, nel pianterreno dell’editore La Vita Felice, a Milano. Giorno fatidico, quel 27 maggio scorso, perché sono sussultato sulla sedia, letteralmente, e ho teso le orecchie, come un cane da caccia, quando hai esordito dal video, collegato online, chiedendoti se fosse possibile scrivere un nuovo paradiso. Così l’ho comprato “Acrobeati”, il tuo nuovo libro, un misto di acrobati e beati, che mette insieme Philippe Petit e Maria Zambrano. Il primo è il funambolo che cammina sulla fune a metri e metri da terra (ha attraversato lo spazio fra le torri gemelle, prima che crollassero al suolo), la seconda è la nota filosofa spagnola che ha scritto “I beati”, saggio bellissimo sulla speranza e il mistero della vita, come a dire che la beatitudine si raggiunge soltanto con un’acrobazia di attesa, in surplace, o stando sospesi in una tensione più che fisica, mentale, poetica, visionaria, tesa com’è la parola ad offrirsi, a cercare il poeta che la nomini, non il poeta che cerca la parola, ma il contrario, il poeta che viene raggiunto dalla parola e che la offre nella sua materia aerea. In quanto si tratta di una poesia pronunciata, la tua, espressionista, tatuata, quasi un grido, distorsione che caratterizza, deformata e diafana, appena estratta dal suo ventre fatale, roccioso, a nome dei figli del Sud, a nome di tutti i figli del mondo, mi verrebbe da dire per ampliare il discorso, cioè nel nome della tradizione poetica antica, quella verace, non decrepita come si pensa, anzi giovane, esaltante, simile alla vista di un acrobata sulla corda, stesa da parte a parte, in equilibrio da vincere per mezzo del bilanciere, o anche senza, perché l’essere beati indica comunque la grazia di un amore, significa essere segnati dall’amore, il che non è scontato, non è da tutti. Ma è il poeta che è segnato, dove il bilanciere forma una croce nel punto d’incontro della fune, in visione dall’alto, o dal basso, croce mobile, che scorre sospesa sulla linea fissa della corda. Sembra addirittura portare un dono, in forma di bilanciere, o semplicemente sé stesso. Immagino il poeta che declama da là, come un nuovo Corradino di Svevia, in Piazza Mercato a Napoli, il giorno della sua decapitazione, quando sul patibolo gettò il suo guanto alla folla, prima di morire, in un gesto di sfida e di promessa insieme. Voi mi amerete, forse voleva dire, e infatti quel giovane re poeta viene adorato ancora a Napoli, nel suo sepolcro della Basilica di Santa Maria Maggiore del Carmine, non solo per la sua fine ingiusta ma perché giovane (16 anni appena) e poeta nel sacrificio, alla faccia dei potenti, e di quelli che hanno sintonia con loro.
Tutto avverato, così pure la tua poesia, amico mio, ché vive in quella possibilità del paradiso che hai detto, in quell’aspirazione di un luogo luminoso del ritorno, sebbene nel solco della ferita, che è il dolore di un popolo, del Sud. Fa strano dirlo in questo momento, giacché noi umani, oggi, in linea di massima, siamo uniti, liberi, erranti, vagabondi per bisogno e per distrazione, alcuni dicono omologati, parola brutta, quasi peggiore del termine massa, che ci ha dominato per lungo tempo, e faceva già inorridire Giacomo Leopardi. Hai ragione: siamo fatti per il paradiso. Sebbene lo abbiamo perso, rimane nelle nostre vene. Ma può venire ancora qualcosa di buono da noi, dalla poesia, soprattutto perché ogni poeta o scrittore che sia, vuole ampliare i confini della letteratura. Questo il suo desiderio principale. Nel grande mezzo del cammin di nostra vita (l’ho detto?... ormai l’ho detto, amen!).
cosa c’è nelle case dei morti?
cosa c’è che iddio non sa?
Incredibile questo inizio a pagina 11, domande a cascate si susseguono per dire quello che non si sa, o che si può conoscere solo scandendo e scardinando la lingua dai suoi pori, dalla sua carne, dalle sue pieghe, che è lingua presunta dei morti per arrivare al mistero. Proprio il non sapere, la negazione, apre a questo, insiste quando la dolcezza (perché c’è dolcezza dietro il tono aspro che s’impone) sembra quella delle domande di un bambino cresciuto, in quanto parte anche lui di un mistero più grande, nel momento che chiede, o dice (pag. 12): cosa è una vita che non / esiste. Già, cos’è? E, qualche verso più in basso: se siamo buoni / allora perché siamo cattivi. Qui si presenta il tema del grande terremoto del male. E continua…
ovvero
perché li morti ci esistono?
e se ci esistono
perché non cadono dal cielo
da ogni albero da ogni piuma
che nel vuoto degli occhi
ti barluma?
se ci esistono cosa
ci esistono a fare?
È come se si volesse dire l’uomo dell’origine, l’uomo prima delle religioni, l’uomo che aspira a Dio già da prima, ecco perché (a pag. 13): la vivizia è un vuoto d’aria.
e io fuori che sono?
che ci stanno a fare
ne le case de li morti
le ferite?
Sono versi tratti dalla pagina 14. A parlare è il poeta della prima parola, che rischia tutto, senza difese.
cosa ci stanno
a fare i beati
ne la casa de li morti?
Invochiamo misericordia, al fine di capire, affinché tutto ci venga detto attraverso il mistero. C’è una mitezza in questo, un cuore buono, aperto alle domande più incalzanti, più prossime a noi, sotto lo strato scabro della superficie, tra le fenditure che la poesia incide, e da cui sgorga. Comunque è incessante il suo movimento: tutto ciò che si ha, o si possiede, si spende nella poesia che chiede.
ne le case de li morti
ci giocano li morti?
e che giocano? cantano?
e che cantano?
Ma servono domande nuove, pensieri nuovi, uomini nuovi, per affrontare la verità scandalosa che i morti sono come i vivi, quindi si comportano come loro, giocano, si distraggono, cantano davanti al dolore della perdita. Mentre la morte ha bisogno di speranza, e la speranza viene sempre in novità e primizia.
papaveri mistico-affranti
il tuono del tuono del tuono
i miei papaveri
i suoi papaveri
con le tagliole
li abbiamo sfioriti
i nostri papaveri
(o erano viole?)
Vogliamo procedere verso l’essenza delle cose, in modo assoluto, per metodo di verità, nodo attorcigliato della poesia. Ma ogni azione cela il male, il male che addenta i nostri cuori, è una tagliola.
sono le tue rose
e le viole del mio papaveraio?
è un bel guaio
un be-lli-ssi-mo guaio!
saremo tutti in cielo
a gennaio
Il papavero forse rappresenta il primo ricordo, ricordo del bene, che ci consola poter raggiungere un giorno, quando saremo davanti a Dio…
quando sarò davanti a iddio
farfalleranno i troni
i petali i bulloni
fiaccole tàccole
scapole e pìppole
papaveri-cani
ogni sorta di crani
E più avanti, a pagina 29…
dentro il semolino c’è iddio
nel mio lettino
ci sono io
Perché Dio è ovunque e non sono io, ma Lui sa di me. Nei versi qui di seguito, nessun commento. Al lettore il piacere di leggerli, soprattutto per quel sempre, parola fra le più belle del mondo.
siamo la notte
di una sola preghiera
ti vediamo per sempre
in cielo
Infatti la morte non ci trova, siamo protetti dal dono del nostro essere altrove.
hai avuto il niente
per morire
ma eri assente
Morire due volte è assurdo, a patto che la seconda volta ci liberi davvero dalla colpa.
ma se ci vergogniamo di te
che sei morto
puoi tu togliermi questa vergogna?
potresti morire di nuovo
mentre io non mi vergogno?
Concludo citando i versi a pagina 46, ancora una domanda, quella definitiva:
se eravamo nessuno vivo
allora dopo i morti chi siamo?
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