Lettera di Vincenzo Gambardella a Daniele Gorret su “Raccolta degli elogi” (L’arcolaio edizioni, 2022), e “Dalla vita” (Lietocolle editore, 2023)
Appena dopo pranzo l’anziano pensa il sonno,
non quello travagliato interrotto della notte,
quello, invece, d’appena dopo pranzo.
Lo pensa con affetto e desiderio
come un bambino può pensare un premio:
una cosa che piace e che s’aspetta.
Tempo mezz’ora e questa cosa bella
non solo sarà sua, sarà fatta di sé:
sarà lui stesso che si trasforma in sonno…
Uomo che dorme e sonno che si fa
saranno intesa, unica realtà.
[…] sonno come di mistico rapito
o dell’infante che è tutto in aldiquà…
Lo si presente, gli si entra in ventre,
gli si sta dentro il tempo sufficiente
per poi uscirne fatti differenti…
Omaggio al sonno che da tre lustri almeno
divide il giorno in un presonno e un poi!
Caro Daniele, scusami se ho tagliuzzato così la tua poesia intitolata “Il sonno pomeridiano”, che poi va avanti e io non ho nemmeno trascritto il finale, ma volevo dirti che è bello questo diventare cosa, è seme, il seme metaforico della vita, metafora vera. Diventare il sonno, come diventare le altre cose dell’esistere, per esistere. Essere tutto, cioè, immedesimarsi in quel frammento. Di volta in volta siamo una cosa e il suo contrario, ci incarniamo in vita, in ventre, per poi rinascere. Manifestazione quotidiana del sacro. Nella prefazione al libro scrivi: “L’elogio di qualcosa prevede che si diventi un po’ la cosa. Quindi, c’è anche la carezza a se stesso in quel qualcosa”.
Riporto un pezzo de “La veranda dello zio”:
[…] A differenza nostra, però, lo zio sostiene
che stando in silenzio seduti su veranda
(non visti da nessuno se non da noi nipoti)
vengon voci (pianissime, sussurri)
e ad ascoltarle bene dicono qualcosa…
Lui dice che ier l’altro ha inteso chiaramente
“Rimetti a noi i debiti, perdona…”
ed ha risposto per non parer sgarbato
“Come anche noi, vedrai, li rimettiamo…”
Lo zio non chiede mai, ma noi alla veranda
vogliamo un bene difficile da dire.
Sì, siamo talmente portati al male, che non abbiamo parole per dire il bene… O è pudore? Lo stesso di quando ci innamoriamo e non riusciamo a pronunciare verbo. Paura, addirittura proviamo paura, le parole ci rimangono in gola, non vogliono uscire. Qui si ritorna alle parole significative, all’inizio del dire, all’inizio della parola, quando era mistero, poesia.
Trascrivo le due ultime strofe de “Il biancospino d’inverno”:
[…] Sappiamo invece – e qui sapere è uguale
a sperare in forza dell’amore –
che a primavera (mesi marzo-aprile)
la pianta si proverà in resurrezione:
come in Emmaus accadde che il Signore
riapparve a due discepoli stupiti:
biancospino sarà nostro Signore
e l’uomo che l’ama incredulo vedrà…
Avere un arbusto come amico
è promessa di profumo e di beltà.
Bellissimo questo “Raccolta degli elogi”. Grazie. È da citazione il verso della lirica intitolata “La panettiera resistente”: pane è sua creatura.
Poi, pochi mesi dopo, hai pubblicato “Dalla vita” e a pagina 19 scrivi: corpo di parola. Io faccio un salto, mi corre un brivido nella schiena, non so che dire, e ci sarebbe tutto da dire, per l’unità a cui arriva il tuo discorso poetico, per quanto sei prossimo a esso, quasi a registrarne l’acuto.
Riporto l’inizio della poesia 3:
L’uomo ogni tanto si chiama una parola,
la chiama a sé come si chiama un gatto,
la chiama da fondo di tempi e di discorsi,
da distanza di lingue morte o vive
(ma ogni lingua – egli lo sa – non è mai morta)
e una volta chiamata, se l’ascolta,
perfino se la guarda quasi fosse
ora dinanzi a lui, corpo di parola.
E, qualche verso più sotto:
[…] Meglio, molto meglio non tradurla affatto,
lasciarla lì com’è, pura percussione
eco d’un’eco, mistero fondo, suono…
Anche in questo libro ritornano le cose umane, le cose incantate, quasi magiche, ma incarnate in vita, che partecipano della vita, in quanto vita, non natura morta. È la descrizione di un paesaggio montano, eppure avviene un’immedesimazione, salta l’idea del rappresentare, dell’apparire, tutto prende forma di nuovo, si rivela in suggestione, stupore e concretezza. Nuovamente inventato il territorio, il contesto e con esso il monte.
[…] Tanto che a tratti gli pare di vederlo
il monte che si staglia nitido e innevato,
ma non di fronte come appare agli altri,
non oltre il fiume gelido di neve,
bensì al suo interno, tutto ritagliato
tra fegato e cuore e denti e naso e fronte
come fatto di loro, quale monte-corpo
di muscoli ed ossa e sangue e carne e nervi.
Insomma, montagna fatta lui o lui montagna…
Tutto è poesia, spazio poetico che occupa tutto, parola viva. Così rubo una strofa alla poesia numero 7, da pagina 27:
[…] Se i suoi nemici erano già forti,
ora si fanno legione illimitata.
Contro di loro all’uomo resta solo
rafforzare i pensieri che sono di poesia:
suoni di Dante, suoni di Leopardi,
suoni da Majakovskij e da Rimbaud:
gli fanno da rinforzi e baluardi,
se li tiene più stretti che ora può.
E rubo al volo una metafora shakespeariana a pagina 29: Burrone del sogno è forse sprofondare?
Ritornano gli oggetti, i loro nomi, stavolta medicine, forse scadute, per ironia o verità, ma è un elenco intero. Dove c’è un elenco c’è infinito. Di seguito una strofa fra pagina 35 e 36:
[…] Ecco la forza d’ogni scatoletta:
quadrata, tonda, plastica o cartone,
ognuna col suo nome che è obbligo imparare,
che è difficile sbagliare, arido, brioso:
oh voltarèn oh prèp oh actixicàm,
oh tiger oil, prazéne, baralgìna,
e tintura madre ed arnica montana
e desametasòne e daktarìn:
rimedi lontani e farmaci vicini,
buttati insieme lì dove ogni cosa
rimane buttata per l’eternità…
Sembra la fine, sembra di aver toccato ogni genere umano e il suo contrario. Pare conclusione di una recita antica, la strofa che sto per riportare, ma non lo è, perché è a pagina 44, mentre il libro ne conta 109 di pagine e bisogna arrivare a quella per conoscere l’acutezza di questo tuo libro necessario, intimo e fedele, omaggio alla fedeltà di ciò che ha senso, profondo, aggiungerei, calciato oltre il tempo a venire, sdoppiato in personaggio di sé, sofferente, quindi più vero, comunque che non tradisce:
[…] “Niente è fidato quanto il mio dolore”:
questo il verso imbucato per stasera.
Domani, forse, ne scriverà migliori.
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