Caro Davide,
vedo che ti sei buttato a capofitto, con la generosità consueta, nell’esame
di “Incontri e agguati”, e questo è meritevole. Ma hai il tono dei miei
vecchi insegnanti dell’Istituto Gonzaga, che leggendo un testo poetico,
volevano sempre indicare una Via e guardavano in lontananza. Il più delle
volte succedeva che, a forza di fissare l’orizzonte, sviavano dal testo,
propriamente, perdevano la via e perdevano la vista. A te questo succede di
rado, dal momento che hai un amore indubbio per la parola. Succede di rado,
ma succede.
Per esempio il riferimento a Mallarmé è, letteralmente, una svista.
Possiamo avere tutti una vaga ammirazione per Mallarmé e per il suo eroico
sogno di purezza, anzi di Purezza. Tuttavia Mallarmé non fa parte del mio
albero genealogico, in nessun modo. Neanche del tuo, naturalmente. Inutile
tirare in ballo – sia pure come metafora – un poeta sconosciuto ad entrambi.
“Sacerdozio della poesia” è un’altra formula infelice. Tra l’altro è stata
usata da Carlo Salinari (pensa un po’) a proposito dell’ultimo Pavese. E tu,
che giustamente disprezzi quel losco personaggio, vai a recuperarla proprio
per “Incontri e agguati”? E sottolineo “proprio”, essendo “Incontri e
agguati” il mio libro più intriso di esperienza. Certo, bisogna poi vedere
cosa significa “esperienza”. Ne discuteremo. Di sicuro non ha a che fare con
la quantità e nemmeno con la varietà degli incontri. Sarebbe una cosa beat,
ossia una cosa da poco. Si può girare il mondo e conoscere mille persone ma
rimanere un letterato. Si può vivere in un quartiere di Praga, tra casa e
ufficio, e creare l’universo di Franz Kafka.
Sulla nascita e sul nascente invece sono d’accordo con te. Se la morte non
fosse così intrecciata alla nascita – al dramma e all’ebbrezza della nascita
– si ridurrebbe a puro e semplice lutto, ossia al godimento devoto della
perdita. E tu hai saputo dirlo bene, questo intreccio: lo testimoniano
alcune poesie tra le tue più belle e durature: “Adieu”, “A M.F Davighi”,
“Gli hai posato la canna della pistola”, “Strada di campagna”, “Pascutti,
1964”, “So e non so”.
Quello che rende accettabile e a volte persino tenero il tuo afflato
oratorio, è il fatto che ogni tuo monito lo rivolgi in qualche modo anche a
te stesso. Cito dalla tua lettera. “Ma ti prego, non sia una strada interna
alla poesia, alla letteratura, una poesia che si affida e confida solo in se
stessa, invece che a tutto – ai baci, alle visioni, a Dio, alle carezze, al
mare, alle mani e alla furia”. Vorrei tranquillizzarti, caro Davide: la mia
strada (ma anche la tua) non corre il pericolo di essere “interna alla
poesia o alla letteratura”, perché non lo è mai stata, per scelta e
vocazione. E per quanto mi riguarda devo aggiungere che – a parte il mare e
a parte Dio – tutto ciò che nomini ha nutrito profondamente i miei versi e
continuerà a farlo.
Milo




