Carlo Maria Simone, Voluti al mondo, Edizioni Cantagalli, 2024
di Corrado Bagnoli
Si può diventare grandi senza un padre? Si può crescere con un padre sbagliato? Lui e lei hanno diciotto anni. Lui ha dentro le ombre della Valsassina dove è nato e cresciuto, lei si porta dietro il mare di Pescara e la sua luce. Che improvvisamente si spegne. Quando un giorno suo padre non tornerà più a casa. Lui e lei s’incontrano all’ultimo anno del liceo, a Lecco dove la madre ha portato lei e le sue sorelle per ricominciare. Dove lui vive con sua madre, o con quello che ne resta, dopo che suo padre, pieno d’alcol, è finito in galera per avere ammazzato un uomo. Ma forse, quel padre, non era nemmeno il suo vero padre.
Il racconto di Carlo Maria Simone ripercorre le strade che li hanno portati lì e a cui qui, in poche righe, è quasi impossibile anche solo accennare. La scrittura si sviluppa con una bella regia i cui fondamenti il narratore mostra di padroneggiare con sicurezza: in dissolvenze, richiami, anticipazioni e flashback, in una bella struttura a capitoli brevi, con alternanza dei tempi, si dipana una vicenda ricchissima di avvenimenti, tanto per l’una che per l’altro. E poi per i due insieme. Il ritmo del racconto rimane sempre teso, anzi capita di essere quasi travolti dagli avvenimenti, molto spesso crudi e drammatici, inaspettati e quasi sovrabbondanti. Certamente duri da affrontare da parte dei due ragazzi che ne potrebbero rimanere schiacciati, sovrastati. Come talvolta capita, con reazioni e sentimenti di delusione, sconforto, senso di abbandono da parte loro.
I due giovani protagonisti sono dipinti in modo vivissimo, parlano e respirano come i ragazzi veri, lontani dalle macchiette giovanilistiche che in tanti libri e anche film sull’adolescenza ci tocca di leggere: nel racconto della tragedia e delle asperità dell’esistenza, capita spesso di vedere romanzi che non sono in grado di lasciare che le cose opache brillino sotto la luce della scrittura. Qui invece accade. Perché c’è uno sguardo, innanzitutto, che è capace di stare esattamente nello sguardo di chi vive sulla pagina. E non sto parlando degli occhi dei personaggi che, con una buona tecnica, un bravo scrittore è in grado di portarsi dentro e rendere in modo adeguato. Lo sguardo di cui parlo ha a che fare con la pìetas, con l’abbraccio totale e incondizionato con cui, chi scrive, avvolge i suoi personaggi, buoni o cattivi, e la loro vicenda.
Il libro di Carlo Maria Simone vive tutto dentro questo sentimento che abbraccia anche i luoghi, i paesaggi, le cose: ci sono straordinarie pagine in cui la descrizione diventa protagonista e la lingua si fa carezza sulla terra, sulle acque del lago. O diventa lama che taglia, luce che acceca, buio che inghiotte. Tutta la storia è raccontata con una scrittura capace di aderire alle cose. Come già si avverte nell’incipit del romanzo:
La luce è nella roccia e il ragazzo vuole afferrarla ma non sa come fare. Il suo sguardo indugia come un falco in sospensione sull’abisso che si stende ai suoi piedi giù dalla croce dei Piani d’Erna e l’abisso è una mano tesa. Sorvola il lago di Garlate e la Cava Cornello e Lecco e le fabbriche incrostate fra acqua e monti e pensa che dall’alto Lecco è brutta come i guai che gli uomini combinano. Allora prova a ignorarla, ma l’occhio ci ricasca. Il lago visto da qui sembra un fiume che non sappia dove andare. I monti lo prendono a gomitate, lui scivola, si svincola, si libera, prosegue. Seni e golfi e una durezza nelle cose.
Il romanzo sembra obbedire alla preziosa indicazione di Charles Dickens che, alla domanda “cosa serve per educare?” in Tempi difficili rispondeva: Di Fatti c’è bisogno nella vita. Piantate nient’altro, estirpate tutto il resto. Solo con i Fatti si educano le menti di animali razionali e nient’altro riuscirà mai loro di alcuna utilità. E di fatti, raccontati con la necessaria ossessione per i particolari, come sempre insegnava lo scrittore inglese, il romanzo è costruito. Ed è attraverso questi fatti che i due ragazzi impareranno, cresceranno, riusciranno a trovare il loro vero nome, facendo i conti con il padre e con la madre? Il romanzo è significativamente diviso in tre parti, una prima dal titolo Arianna e il Minotauro, una seconda che si intitola Il labirinto e poi c’è l’epilogo. Proprio in quelle pagine finali, sorprendiamo i due giovani, ormai cresciuti e trasferitisi in America, in questo dialogo:
«Cosa c’è?», le chiede lui.
«C’è che tu dalla tua storia hai saputo cavarci fuori tutto questo», risponde lei senza guardarlo.
«Dal tuo dolore, hai imparato qualcosa».
[…]
«Non è dal dolore che ho imparato. Ma dalla vita», le dice poi lui, a bassa voce.
Lei si asciuga le lacrime con un fazzoletto che ha preso nella borsetta.
Inspira. Espira.
«Non sono la stessa cosa?»
Lui non risponde e guarda verso il prato e la notte.
Lei guarda lui e ha tutto il trucco slavato.
«No, io non credo», le dice poi lui.
Per loro la vita si è tutta consumata dentro un labirinto da cui non era facile uscire. Da cui forse usciranno. Chiamandosi, finalmente, per nome. Come nel libro non era mai avvenuto prima.
Carlo Maria Simone, giovanissimo scrittore e insegnante, dopo la pubblicazione di un volume di racconti brevi dal titolo Riso sul sagrato, è qui al suo primo romanzo. Che è un bel romanzo. Anche se non è un romanzo perfetto: forse proprio come i suoi personaggi - che sono travolti dagli avvenimenti - nella pur giusta obbedienza al dettato del racconto, talvolta chi racconta sembra lasciarsi dominare dalla voglia di sorprendere. La sua voce pare in qualche occasione occupata ad ascoltarsi troppo, anche a volere creare un clima di sensazione di cui invece il racconto non ha bisogno. Ma glielo si può concedere: paradossalmente, a chi è giovane sembra che non ci sia tempo, che si debba dire tutto, che il silenzio possa nascondere. Invece il silenzio illumina. Lo si impara. Con il tempo.
E c’è un altro motivo per cui a me viene facile avere uno sguardo benevolo su questa storia: in più passaggi si raccontano con ossessiva precisione i viaggi del ragazzo sulla sua moto, un Beta RR di seconda mano, con cui gira intorno al lago, con cui sale e scende da Ballabio, a Pasturo, a Introbio, a Taceno. E racconta come si piega sulle curve, come rallenta agli incroci. Così, per esempio, racconta a pag. 114:
Superò Pasturo poi Introbio poi Primaluna e proseguendo lungo la valle incuneata fra cime aspre e spezzate passò Cortabbio e Bindo e Carreggiata e svoltò in direzione di Taceno. Dopo di che la strada cominciava a contorcersi in tornanti e a salire e lui la percorse tutta fino a Margno. Ma all’incrocio per Casargo prese a sinistra e continuò per Indovero e Narro e gli anni della sua infanzia affioravano in una polla di immagini metà ricordo metà mistero che lo conducevano innanzi e così, nonostante l’oscurità in cui defluivano i suoi pensieri, seppe quando svoltare per arrampicarsi in cima al Monte Basso, in direzione di Giumello.
Mi sono rivisto su quelle strade quando, negli anni Settanta, con il mio Beta enduro 125, fuggivo dai compiti di trigonometria o dalle tavole di disegno geometrico. O da chissà cos’altro. E con i miei compagni, che avevano moto più ricche e potenti come il KTM, o lo Zundapp o il 125 Gilera, facevamo il giro del lago o salivamo su nella valle. Magari con altre paure, con dentro attese e misteri diversi. Ed è bello scoprire che qualcosa di quello che accade sulla pagina è anche un po’ tuo.
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