di Davide Rondoni
Vittorino Curci, Poesie (1997-2020), La Vita Felice, 2021
Con ritardo, se esiste il ritardo in poesia, annoto alcune parziali cose su una importante auto-antologia che ci è offerta da un editore generoso e acuto come "La vita felice".
Vi è in queste pagine una trasformazione dell'ira, un vuoto dove però abita la sorellina, dunque mai abraso a puro zero, un nihilismo continuamente corretto, se così si può dire, dalla vita. Fratello, pare dalla introduzione di Milo De Angelis, e sodale al più ermetico poeta milanese, Curci in effetti si presenta con questa bella auto-antologia come un prestigiatore di vuoti. Non sono i vuoti di Milano o delle metropoli di apparizioni e agguati, ma altri, non meno devianti e abitati, lungo le vie di un meridione dove "c'è vita... che incedibilmente ci aspetta" e dove però a volte il tempo si arresta in una sorta di inesistenza. L'uomo che "dice addio" sembra però tornare a una continua possibile infanzia, traversando epoche personali, collettive, città, stratificazioni familiari... La nascita come possibilità, come deviazione profonda dal discorso che tenderebbe a imporsi. Se De Angelis nota in questo una eco di lucreziana (e, aggiungo, pascoliana) individuale e universale dinamica di quel rimorir perenne che è al tempo stesso durata e metamorfosi (parola che però, se applicata a Curci, come fa De Angelis, va letta in direzione diversa dall'uso che ne faceva Luzi).
Infatti, tale metamorfosi patisce la propria orizzontale perpetuazione. Il canto possibile appare spesso strozzato. E non si tratta di dosare quanto di lirico o elegiaco (termini credo ormai inappropriati strictu sensu alle esperienze post eliotiane e contemporanee) vi sia nel dettato di Curci, quanto di avvertire una tensione in lotta, una irrisolta propulsione che, si badi, è elemento di straziata bellezza. Un libro dove la trasformazione di una specie di ira iniziale porta l'autore non solo in varie direzioni di ricerca e di dettato sempre libere e mobili (inclusi i percorsi in arti sorelle) ma diviene sempre acutamente e sperdutamente una battaglia che si chiarisce nei suoi termini agonistici. Fino all'ultima poesia della auto-antologia, perfetta nel dire e non dire... Ovvero nel rimanere su quella soglia sottile e rischiosa che Curci ha saputo abitare per lunghi anni, nominando poesia e vita allo stesso identico modo, mai separandole per una presunzione salvifica della prima sulla seconda. E lo ha fatto senza sottrarsi dalla mischia in anima e corpo, dentro al ring del testo, del vocabolario, della sintassi così come del mondo, lavorando su entrambi i campi con delicatezza, rispetto e furore.
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Dal basso del mio essere poco intellettuale e sintetico mi permetto di dire che il prestigiatore di vuoti e il canto strozzato che Rondoni trova nelle poesie di Vittorino e soltanto jazz