di Fabio Barone
Alessandro Anil, Versante d’esilio, collana “Cleide” (a cura di Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi), Edizioni Minerva, 2019
Talvolta, mi chino su me stesso /
fino a chinarmi sulla dolcezza.
Mi chiedo come mai, in molta poesia moderna di autori giovani, si faccia fatica a pronunciare il pronome personale “io”, e così le sue declinazioni che sempre dovrebbero coinvolgere l’esperienza del corpo nel mondo. È questa una provocazione e una domanda che non vuole giustificare, per questo, nessuna stroncatura, bensì entrare nella questione per rilevarne le tensioni ideologiche dietro le quali si cela il mancato utilizzo della suddetta particella pronominale. Che la dinamica spaventi gli scrittori di versi? Quasi temessero di trasferire in prima persona l’esperienza conoscitiva — la nostra materia corporea percepisce, memorizza — che stanno compiendo? Di certo quella particella pronominale monosillabica, così apparentemente innocua, discreta dentro i caratteri di una pagina scritta, è certamente un contenitore inesauribile delle più felici e infelici metamorfosi del nostro progredire conoscitivo, la più elusiva, certo, ma la più concreta testimone di un grido, di un desiderio, di una presa di coscienza, di un’energia (una forza) a contatto con una porzione di realtà. Arrivo così a toccare il volume d’esordio di Alessandro Anil (vincitore del Camaiore Proposte nel 2019, e del Gozzano opera prima nel 2022), questo “Versante d’esilio” che sin dal titolo dà l’idea di una sporgenza verso la quale lo scrittore si proietta, in un perenne esilio da una percezione del sé di prima verso il sé di dopo, ed è forse per questo che il pronome personale che Anil predilige in questa raccolta è il “tu”, o una sorta di ‘plurale circolare’ dal quale sembra chiamare a raccolta nel suo animo, dal vertice della sua attenzione, tutte le esperienze e persone da cui ha preso, alle quali ha dato. Così Anil, nelle prime pagine di questo poemetto diviso in tredici sezioni, ciascuna senza titolo, scrive:
Hai camminato nei millenni, come hai camminato…
E ora, ti inoltri nella fine di questa giornata
e per una strana ragione pensi un po’ alla tua.
Passa un po’ di luce, la guardi, si oscura a poco a poco,
in virtù della sua materia riconosce la tua… le senti
le ombre, ti chiamano a raccolta, nelle pieghe più intime
dell’erba, nell’antica schiena di una donna, il vento
ti carezza con aria contemplativa, sei una foglia
semplice, mentre indugi, la ami… «Ciò che è dietro
è dietro, ciò che hai potuto fare, hai fatto» e ora,
in questo adesso, vorresti la parola più mutevole
come un atto che persiste, si rigenera, nonostante…
Così un’alba diviene giorno, a poco a poco sera,
in questo modo io sono, in questo modo tu sei anche,
e ripeti… mentre vai… un’alba diviene giorno, a poco a poco
sera… un’alba… in questo modo io sono,
in questo modo tu sei… un’alba diviene giorno…
in questo modo… a poco a poco…
Ecco un esempio lampante, che se da un lato interpreto come tentativo di eludere il problema dell’io — «che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?» cantava Leo di Recanati —, dall’altro penso possa essere un modo di dirsi attraverso i nostri altri io — «Io è un altro» fulminò così il suo professore, Rimbaud, «Ed io non voglio più essere io» ammetteva Gozzano —, quel ‘sé’ che non conosciamo e che non sappiamo pronunciare con certezza, favorendo in questo modo l’utilizzo di uno dei tanti “tu” in noi introiettati, i quali affollano la moltitudine che siamo, i frammenti del nostro Io. Però, Alessandro Anil, in un momento sembra che il problema dell’io all’interno di un testo se lo ponga, domandandosi con un ormai diffuso linguaggio da prosa spezzata: «Chi sei tu, seduta nella stanza, di solitaria veste / dopo anni ritrovata, chi sono io che ti parlo, / residuo di me stesso o l’ombra di un nome che tu guardi / e fermi nell’istante […]». Una prosa spezzata, dicevo, che nei toni ricorda molto Milo De Angelis (tant’è che De Angelis ha parlato di Anil nella rubrica che cura per la rivista Poesia di Crocetti, “I poeti di trent’anni”), soprattutto l’ultimo di Linea intera, linea spezzata ma, al contrario di De Angelis, in Anil non si distinguono chiaramente delle figure, la sua scrittura è più simile a un flusso di coscienza senza vampe di lirismo, senza la ricerca di una melodia, nell’altalena di un pensiero dialogante dove l’ambiguità fra “io” e “tu” trapassa in un miscuglio esistenziale che Anil trasfigura in immagini nelle quali domina l’elemento dell’acqua, un qualcosa che non si sa chiamare perché impossibile da fermare: «…e tutto diviene altro da così com’è, / tutto diviene l’una e l’altra cosa / da così com’è…» dicono gli ultimissimi versi di questa raccolta.
A questo punto mi sorgono le parole di un vivace polemista (nell’accezione più nobile e mai vanamente virulenta) quale è Riccardo Canaletti, che in suo post Facebook — di cui ora l’argomento non è perno del discorso — scrive a proposito di certa poesia che lui chiama «concettualizzata», dicendo: «Quella poesia concettualizzata più e più volte fino a diventare un testo argomentativo in versi, dove il tema, insieme a una buona dose di letture filosofiche, permette di evitare l'io. Non l'io dell'identità, sia chiaro, ma l'io della domanda “chi sono?”. Quella poesia che, pur volendo rifiutare l'io a favore di un tu, di un noi, di un loro, elude questo grande interrogativo e vorrebbe innalzarsi a una sfera sovraindividuale (magari — quasi sempre è così — sociale), senza rendere manifesta la propria vulnerabilità, le proprie idiosincrasie, i grandi limiti».
Dunque, ammetto con estrema franchezza che molto di questo volume di Anil è pensoso, quasi meditativo, il che fa supporre un profondo lavoro dell’animo a monte della raccolta, e che pure sento mancante di una corporeità che a mio parere non può estromettersi dal discorso chiamato ‘poesia’, ovvero quel limite insito nella nostra materia che conosce, cambia e cambiando muore, come l’apparire di un fiore che ha i suoi stati di crescita e deperimento, i quali non può nascondere, e che noi vediamo quale effetto della sua metamorfosi — e che effetto guardare un roseto in pieno vigore, così come lo stesso in stato morente, quando il colore è spento, il gambo avvizzito? Ecco: la morte, il dolore, il limite sono nominati in questa raccolta ma non si avvertono, come se fossero allontanati dall’esperienza corporea e troppo filtrati dal pensiero anche quando, di fronte a certe dinamiche della vita, non si potrebbe per necessità di natura.
Caro Alessandro, mi rivolgo a te adesso, non ci conosciamo di persona ma il tuo volume, per quanto abitante quell’«ampio respiro» di cui parla De Angelis, mi ha dato modo di riflettere ed esporre le questioni di cui sopra, senza per questo voler stroncare la tua raccolta che ho apprezzato per la tensione pensante che, di prosa spezzata in prosa spezzata, si fa strada come un torrente che sfocia in un lago, circolare, denso di momenti di vita di cui di certo, tu, scrivendone, hai asciugato nel tuo intimo abbeverandoti di essi. Ma come dicevo, la sento mancante — per quanto molta versificazione di oggi tenda ad avere un tono filosofico-argomentativo — perché lascia dietro di sé il vuoto del corpo che a mio parere è il più colorito condensatore di energia, quindi di esperienza conoscitiva e così di parole cariche, a quel punto, di un fermento non solo ideale, anche ctonio, e per questo paradossale.
Detto ciò ti abbraccio, e spero con questo di aprire un dialogo quanto più stimolante possibile, senza generare rancore, stizza, ma solo confronto.