di Fausto Paolo Filograna
Nota di lettura a Inondazioni di Valeria Cagnazzo, Capire edizioni 2019
[...]
Qui, dove siamo, dal lato della frontiera che è terra, terra,
terra che si asciuga al volume immutevole dei nostri respiri, si crepa
sotto al passo e secca le lingue dei suoi fiori e le unghie dei rosmarini
all’aria, che è tutta dove non sia terra e che soffia con vento
dimesso, servile, dentro alle mani a conchiglia; avrebbero
invaso le loro specie d’argento questo angolo dove noi
scavammo nella pietra, indurimmo l’argilla, intagliammo rifugi
dentro al legno, e ancora stendiamo lenzuola larghe di frumento
perché si asciughino e crescano in altezza.
Sarebbero entrati nelle chiese per le navate maggiori: l’acqua salmastra
raccolta nelle bocche, dietro ai denti triangolari, rimasta sulle pelli
come una sorta di sudore, fino ai piedi bianchi delle statue, già
lucidi di vernice, al campanello della preghiera che avrebbe preso
a tintinnare, per lavare finalmente poi le croste del costato,
avrebbe inondato senza avviso ogni cosa. Moltiplicazione
dei pesci. I grandi insieme ai piccoli, una sola nave azzurra,
fruscio di branche e torsione irrequieta di spine: avrebbero infiltrato
gli spazi dove la polvere da noi si gonfia in brevi chiome,
si pronunciano i segreti, si inventano i nomi per i primi figli
e le loro sorti, di animali di terra. L’acqua ovunque avrebbe lastricato
di scaglie le strade, e domandato gli indirizzi dei suoi parenti
scomparsi, e tutto quanto nato all’aria e alla terra
avrebbe bagnato di un sigillo di dolore.
[...]
Un libro che si apre con una mappa è indicativo di un mondo senza bussola e senza più legenda, senza compasso e senza meridiane. Vedi la vitalità dei nuovi film post-apocalittici, non da ultimo la serie televisiva Chernobyl. Una mappa, infatti, non visibile in questo articolo, è prima del prologo, e mostra gli spostamenti cui è sottoposto il lettore.
Ma questo libro si apre col condizionale, che è il modo italiano che esprime una possibilità, la quale può rendersi vera solo a patto che si avverino determinate condizioni. Da questo punto di vista, la precarietà di cui sopra, la perdita umiliante di ogni direzione sul quadrante, è posta come ipotesi in esergo, ma sottoposta a delle condizioni facendo del libro una pura ipotesi del possibile.
Lo scenario lascia il posto allo scorrere del libro. Dopo il prologo la prima poesia lascia il posto al congiuntivo, e interviene subito con un rassicurante (neanche tanto) indicativo, tempo della certezza, delle cose che accadono. Nonché come il titolo suggerisce al mare.
Il mare, col suo essere archetipicamente qualcosa di mobile, detta le possibilità del presente e dell'avvenire, passando senza remore da situazioni personali, storie, a fatti assolutamente visionari e pieni di bestie, oggetti, animali.
Una delle peculiarità del libro è sicuramente il linguaggio. La poesia è densa, e mediante l'accostamento, anch'esso visionario, dei termini, giunge a coniare nuove forme di significato nelle cose. Non solo, crea nuove cose, nuovi esseri, coi quali bisogna interfacciarsi; binari o trinari come le parole che servono a crearne di nuovi. Questi esseri, queste persone e questi oggetti, fatti nuovi dal mezzo linguistico sono tutti appiattiti ad un unico livello, ricapitolato nel linguaggio e nella visione della poetessa. Quello che avviene in questo modo è un abbattimento delle gerarchie tra le cose. La poetessa, sfiorando il livello del mare, vede tutto compresso, come nella mappa, ad altezza d'uomo. E da ciò traspare una volontà anche morale del libro, il quale, agendo contro le regole del sistema della vita, riporta tutto al livello dello sguardo, abbassando o innalzando le cose a partire dalla loro percezione comune, e guardandole da pari a pari. Come se il peso del monito iniziale avesse schiacciato in una bidimensionalità tutti gli oggetti, le persone, gli animali. La poetessa guarda negli occhi ogni essere vivente citato, persino le cose, con un senso di doppiezza che deriva dal peso del mistero di sopra, dalle profondità del mare di sotto. Ciò nobilita il povero, l'oggetto, la minuzia, e abbassa il grande al livello degli occhi cui può guardare un bambino. Lo scenario del libro dunque, nella morsa di bene e male, è schiacciato fino a rendersi neutro, contraddittorio. L'obbiettività dell'occhio della poetessa risiede proprio nel rifiutarsi di sciogliere le contraddizioni, nel lasciarle vivere, e da obbiettività risulta una sorta di rispetto. Rispetto perché, almeno in poesia, schiacciare le gerarchie è possibile, fino ad uniformare il creato e a ricapitolarlo in una sola visione.
Esaurito il livello bidimensionale, è bene curarsi di quello tridimensionale. Nel libro infatti non è solo l'apparenza bidimensionale del mare che innerva le parole, ma anche la sua profondità.
Tale profondità passa per visioni bambine, per miracoli apparenti e non, stupefazioni e rivelazioni. Le cose sono spesso personificate, si sfiora il paradosso del parlar loro, quello del far accadere quasi per scherzo l'impossibile - “e sia: che il filo attraversi la cruna” dice la poetessa – quello del ripristinare un io bambino dialogante con un io adulto, sfiorando l'infanzia quasi come in un romanzo di formazione, ma con una delicatezza e una sensibilità del tutto caratteristici e affatto nuovi.
Il libro è sicuramente da prendere in considerazione, sia nelle poesie lunghe che in quelle brevi, ugualmente di ottima fattura e dense di significato nella loro diversità. Tutte, al di là dei tecnicismi, piene di vita e di morte, di bene e male accartocciati e fatti foglio. Al termine di questa breve nota, dunque, annetto alcune poesie.
Per un bambino
Alzo il mento al cielo
sputo in faccia a Dio
i suoi geni corrotti
come denti:
che gli lacerino
anche a lui
il corredo.
Cucito
E sia: che il filo attraversi la cruna.
Ordino il suddetto sortilegio. Come imboccano
due piedi una stradina, precisamente,
e non un’altra, che una vita s’insinui
per quel verso. Succede questo, che si manchi a volte
il buco: consiste l’esercizio nell’intuizione del senso,
indovinare il sogno. Può capitare anche
che io sfugga così al tempo, che mi pieghi per errore
nello spazio: e la bambina che mi cuce
spazientita sbuffi, nell’infilarmi
al mio posto, per quella piccola finestra.
Gatti
Quando ero bambina sapevo l’inizio e la fine.
Mia madre mi svegliava con foglie di menta,
si arricciavano nell’acqua. Il mondo prima non esisteva.
A palpebre stirate, era il piccolo quartiere di fili
disegnato fin dove l’odore dell’olio verginissimo di oliva
poteva arrivare. Questo è ad ogni modo il tempo,
i suoi cardini dal primo giorno rimangono oliati
alla cinta della vita per quel motivo antico.
La geografia si risucchiava nel mio sonno alla sera:
come neri branchi di formiche, la storia riportava
i suoi tiepidi frammenti dentro ai miei occhi, scuri formicai.
Fin quando non perdi ammazzati i parenti, il mondo
è il tuo giorno soltanto: e ad allargarsi è a quel punto lo spazio
intorno ai corpi loro, non quello dove muovi il tuo.
Nessuno è schiavo della propria nazione, ma solo
del suo risveglio. Un giorno torneremo a dormire, come i figli
abortiti alle madri, dimenticando il suono dolce delle lingue,
il pianto incollato alle pareti, come se avessimo sempre dormito.
La campagna era la costellazione immobile di bulbi e di gemme
dove portavo Amina a strappare le lumache ai segreti
degli steli. Non sapevo in quei giorni che materia
di guscio, che fuga di carni, che bava silenziosa
di paura dovevamo lasciare sulle strade.
Ero piccola e odoravo di limone. Mia madre mi baciava sulla bocca,
parlava molto. Aggiungevo l’acqua al caffè, fingevo di avere anch’io
molte cose da dire. Giocavo a spaventare i soldati coi miei gatti.
Ne avevo cinque,
di soldati: nella stradina della finestra azzurra che è corta
pochi passi, sotto casa, tenevano due sedie, per cinque persone;
la matematica, credo, li rendeva pertanto irascibili.
Temevano oltemodo i gatti, esuli di pelle impunemente aggrappata
alle ossa, orinatori di precisione, bastardi. Più li odiavano,
più quelli da tutte le parti nascevano, come i nostri cugini
dai grembi della larga stirpe. Erano gli agguati a coda dritta
dai sacchi di patate a farli tremare. Io dietro al cancello ridevo.
Avevo armato la mia truppa personale di animali di frutti marci
e di becchi d’uccello e li portavo alla guerra
dentro a una carriola. Imbracciavano il fucile, gonfiavano le guance,
i nemici. C’era uno coi capelli rossi, sopra tutti lui
temeva i gatti: la pelliccia di alcuni era uguale alla sua,
per questo li detestava, per paura di vedere il suo aspetto
in quelle bestie e riconosciuto di esserne sparato.
Una notte che dormivo, e niente perciò poteva esistere,
gli ortaggi erano i miei organi operosi e le paure annodate
dentro alle mie trecce, un cassonetto
|| infilò un proiettile ||
in mezzo agli occhi del mio gatto. Era quello bianco e nero,
ce li aveva grandi e verdi. Il vetro prese la forma del respiro.
Quel disegno di mosche bianche sotto al sole
per la strada, il giorno dopo. Il mondo mi parve all’improvviso
un posto grande. Dove il punto in mezzo agli occhi di chiunque
poteva ovunque a un certo punto sanguinare.
Chiesi per questo a tutti i gatti di rinunciare per sempre alla mia lotta.
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