L’esercizio vitale della Cagnazzo

 di Alessia Iuliano

Valeria Cagnazzo, Inondazioni, CartaCanta editore, 2019

«Dentro al tuo abbraccio sconfina la grazia». Sconfina. Inondazioni, libro in cui l’autrice, Valeria Cagnazzo, esordisce presentando al lettore la sua personale legenda geografica, viene a costituire, in realtà, un territorio universale e sconfinato dentro l’abbraccio del vivente che nulla si risparmia. Quel territorio, quella «parte del mondo dove eccoci vivere, inghiottire, sputare».

È poesia della contemporaneità, che parte dal reale salda – per così dire – a terra e che in una sorta di mimesi con la vita che si manifesta si fa mare, marea, poi inondazione. Arriva a toccare tutto, ogni nome. Ogni cosa in questo libro ha vita, si impone all’autrice che così ne traduce la lingua:

 

«[...] Ci salviamo dalla miseria in questa lingua, è proteggersi
dal lutto che sudano le statue e imbavaglia le finestre,
l’amore, per noi [...]»

 

Ma Valeria Cagnazzo è portatrice anche di un’altra verità, sacrale ovvero riconosce il ruolo dell’uomo al centro del moto, come ci dice Frolloni nella sua introduzione al libro. L’uomo, l’io, l’umano vive le questioni del mondo e per farlo è “costretto” a imboccare quella stradina, non un’altra, è portato all’errore:

Cucito
E sia: che il filo attraversi la cruna.
Ordino il suddetto sortilegio. Come imboccano
due piedi una stradina, precisamente,
e non un’altra, che una vita s’insinui
per quel verso. Succede questo, che si manchi a volte
il buco: consiste l’esercizio nell’intuizione del senso,
indovinare il sogno. Può capitare anche
che io sfugga al tempo, che mi pieghi per errore
nello spazio: e la bambina che mi cuce
spazientita sbuffi, nell’infilarmi
al mio posto, per quella piccola finestra.

In questa abilità di scandire, insinuarsi e cucire, in questo esercizio tutto umano, reale, sta la grande capacità poetica della nostra autrice, il suo uscire fuori e allontanarsi – exercitium, da exercère, composto da ex=fuori e arcere=allontanare –  il suo sconfinare si evince dalla forma stessa in cui ci presenta il libro, come sottolinea Rondoni nella quarta di copertina, stratificato, che sa toccare molti registri, in un andamento poematico dove si alternano, appunto, testi più o meno brevi attraverso i quali la Cagnazzo condivide la sua conoscenza. Ancora, però, parliamo di quella conoscenza latina ottenuta per mezzo dell’esperienza e non di qualche verità accampata nell’iperuranio!

Valeria Cagnazzo ha poco a che vedere con le idee, fa poesia civile, si sporca le mani entra nella cronologia della storia, coinvolge tutti i tempi, il passato, i santi e anche Dio – perché no! – non si risparmia di affibbiargli dei geni corrotti e qui si coglie, ancora, la bravura della Cagnazzo nel trasporre in versi il dolore, ma non si dica lamentatio: in questo libro c’è vita e forza, c’è la consapevolezza di un destino universale e mani per tenerci stretti.

Gatti
Quando ero bambina sapevo l’inizio e la fine.
Mia madre mi svegliava con foglie di menta,
si arricciavano nell’acqua. Il mondo prima non esisteva.
A palpebre stirate, era il piccolo quartiere di fili
disegnato fin dove l’odore dell’olio verginissimo di oliva
poteva arrivare. Questo è ad ogni modo il tempo,
i suoi cardini dal primo giorno rimangono oliati
alla cinta della vita per quel motivo antico.
La geografia si risucchiava nel mio sonno alla sera:
come neri branchi di formiche, la storia riportava
i suoi tiepidi frammenti dentro ai miei occhi, scuri formicai.
Fin quando non perdi ammazzati i parenti, il mondo
è il tuo giorno soltanto - e si allarga a quel punto lo spazio
intorno ai corpi loro, non quello dove muovi il tuo.
Nessuno è schiavo della propria nazione, ma solo
del suo risveglio. Un giorno torneremo a dormire, come i figli
abortiti alle madri, dimenticando il suono dolce delle lingue,
il pianto incollato alle pareti, come se avessimo sempre dormito.
La campagna era la costellazione di bulbi e gemme
dove portavo Amina a strappare le lumache ai segreti
degli steli. Non sapevo in quei giorni che materia
di guscio, che fuga di carni, che bava silenziosa
di paura dovevamo lasciare sulle strade.
Ero piccola, odoravo di limone. Mia madre mi baciava sulla bocca,

parlava molto. Aggiungevo l’acqua al caffè, fingevo di avere anch’io
molte cose da dire. Giocavo a spaventare i soldati coi miei gatti.

Ne avevo cinque,

di soldati: nella stradina della finestra azzurra che è corta
pochi passi, sotto casa, tenevano due sedie, per cinque
persone; la matematica li rendeva irascibili.
Temevano oltemodo i gatti, esuli di pelle aggrappata
alle ossa, orinatori di precisione, bastardi. Più li odiavano,
più quelli da tutte le parti nascevano, come i nostri cugini
dai grembi della larga stirpe. Erano gli agguati a coda dritta
dai sacchi di patate a farli tremare. Io dietro al cancello ridevo.
Avevo armato la mia truppa personale di animali di frutti marci
e becchi d’uccello, li portavo alla guerra
dentro a una carriola. Imbracciavano il fucile, gonfiavano le guance,
i nemici. C’era uno coi capelli rossi, sopra tutti lui
temeva i gatti: la pelliccia di alcuni era uguale alla sua.
Una notte che dormivo, e niente perciò poteva esistere,
gli ortaggi erano i miei organi operosi e le paure annodate
strette alle mie trecce, un cassonetto

|| infilò un proiettile ||

in mezzo agli occhi del mio gatto. Era quello bianco e nero,
ce li aveva grandi e verdi. Il vetro prese la forma del respiro.

Quel disegno di mosche bianche sotto al sole

per la strada, il giorno dopo. Il mondo mi parve all’improvviso
un posto grande. Dove il punto in mezzo agli occhi di chiunque
poteva ovunque a un certo punto sanguinare.

Chiesi per questo a tutti i gatti di rinunciare per sempre alla mia lotta.

Il perdono
Come ho avuto ciò che mi dai tu.
Avrò amato a sufficienza?
Avrò dato l’acqua ai gerani,
cambiato sempre quella nella ciotola del gatto?
Avrò imparato a memoria i cipressi,
i soldati e i loro fratelli, non una copertina
con l’orlo offeso, neanche una stagione che si senta
con me risentita? Nessun grazie
è mai stato omesso? Mi ha perdonata il corpo
per il trattamento, e gli uccelli al davanzale
per l’assenza di briciole, così grande si è estesa
la misericordia? Di quante mie cure
è stato il mondo difettoso? Strappavo
insieme ai giorni i fiori, mal imparavo
a carezzare, ho ignorato nomi, date e tempo,
e il volto unanime dell’uomo,
la forma sua unica degna di amore,
lasciarla fluire negli scoli per la pioggia:
dunque tutto ad ogni modo mi è rimesso?

Dentro al tuo abbraccio sconfina la grazia.

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