di Daniele Giustolisi
Valentina Demuro, Che i fichi nascano rossi, Italic peQuod 2024
[…] Vedi, anche i totani agguerriti/ sentono la luce della luna/ e vanno a morire/ sulle barche silenziose della notte
Ho conosciuto Valentina una sera del luglio 2021, in Romagna, quando il respiro dell’estate ritornava ad avere la misura larga delle piazze, delle spiagge, dei cortili e dei borghi di un’Italia ancora ferita dalla pandemia. Eravamo nella Rocca di Bertinoro che guarda la lontananza dell’Adriatico, in quella residenza di amicizia e lavoro sulla parola che è l’Atelier delle arti dell’amico Davide Rondoni. Al termine di una lettura pubblica, si restò a improvvisare qualcosa di simile a una pizzica, con Valentina che offriva i suoi passi, come a nuotare nell’aria. Era forse un altro dei modi, per noi che non eravamo rimasti, per noi che eravamo andati, di portare lì, in quella regione da tempo adottiva per entrambi, le nostre terre del sud, la mia la Sicilia, la sua la Puglia.
Mi pare risieda qui, in effetti, un possibile taglio di luce dell’opera Che i fichi nascano rossi (peQuod, 2024), secondo libro di poesia di Valentina Demuro dopo A piccoli passi (Edizioni DrawUp, 2017), cioè nella provenienza che si fa bussola per riconoscere «ogni scintilla che incrina la quiete» e che «rivela una bellezza che canta anche nel silenzio». Libro mediterraneo e meridiano che da subito, però, si sottrae all’epica del rimpianto e della trasfigurazione mitica facendo i conti con la durezza di una «terra che perde/ gli alberi e i figli», portata «come un grido, un sogno, una croce».
Come a dire, può esserci davvero sud solo a partire dalla consapevolezza della sua fine storica e più impenetrabilmente magica, ridotto ormai a un «cammino spogliato di racconti». Solo dopo il taglio, infatti, solo dopo l’abbandono, la ferita che separa, lacera, «recide», è possibile «tornare daccapo», ripassare i confini, riconquistare, fare del sud qualcosa di più ampio, una coordinata dello sguardo che travalica il limite e abbraccia il mondo, indossarlo per sempre come «un abito di croci» (Odisseo: Tu stessa hai detto che porto l’isola in me/ Calipso: Oh mutata, perduta, un silenzio; questo l’esergo scelto tratto da Dialoghi con Leucò).
Portare l’isola, portare il sud, ovunque. Ovvero, portare una profondità tutta orizzontale dello sguardo, che non ha difese, armi, punti-ombra. Ma se lo sguardo non ha difese ogni cosa «assedia gli occhi», diventando traccia di un’emergenza, di una domanda. Per questo Valentina ci dice «chiedo un significare alle cose, un segno […] / se il senso della morte di questa pesca è uguale a quella di un uomo».
Si può stare solo sull’orlo di questa domanda tremenda, oggi quasi inudibile. Oppure… fare della domanda stessa anche un movimento, uno spostamento. Riconoscere nei suoi termini i segni che toccano questo nostro provvisorio e irripetibile passaggio, lo aprono, lo intensificano. Valentina li ritrova ancora lì, negli occhi della sua terra rivolti a tutte le altre terre possibili: il gelsomino a cui «spetta reggere da solo/ l’oscurità di una notte intera» o «nel fico spolpato dal sole». Naturamovimento che partecipa a questo nostro sostare; appello insperato per dire attraverso lei l’indicibile. E allora bisogna vederlo il «segreto assolato del cormorano», credere alle «stelle che allungano la luce/ ti toccano e sono già/ cadute in un altro buio», ritrovare in fondo al nostro cuore quel “tu” che ha «il volto del vento».
Valentina offre questi versi per salvare, illusoriamente, i segni che costellano l’esistenza, la quotidianità, annidati «nel ritmo delle cose minime». E può essere anche semplicemente bello leggerli, leggere versi come «è così feroce al nostro cuore/ l’incanto quieto della neve». Bellezza che non è scongiuro della ferita ma una sua possibile declinazione, una sua possibile forma. La parola-soffio, forse, di cui scriveva Jaccottet, che incide il molto bianco delle pagine del libro, attraverso versi centellinati, limpidi, essenziali, di grande respiro e tensione lirica, che si offrono per essere letti, custoditi, attraversati.
Soffio che può diventare, infine, forza generativa, in molti modi. Perché, come in ogni vita, c’è l’impatto che squassa, sfonda, tramortisce. Ma a un certo punto occorre anche «scegliere/ che cosa farsene del proprio dolore/ un pianto livido cieco/ oppure un canto». Valentina indica la sua strada che è questo suo libro, questo suo titolo: germoglio nuovo, atteso, che sia del colore giusto, buono, nutriente dei fichi. Ma occorre, appunto, un movimento, tutta la dedizione possibile delle mani che nonostante tutto costruiscono, preparano l’avvento del frutto: «legare pazientemente la corda/ attorno all’innesto di queste macerie».
È l’amore, insaziabile, dono insperato, «che ha premura d’essere», di venire fuori, di risalire i suoi stessi abissi di resa, mancanza, perdita, menzogna, dolore. Ce lo dice Valentina, con la forza misteriosa di chi sembra aver attraversato molte ere del cuore: «occorre amore per sopravvivere all’amore».
*
Conosci la strada,
la pietra in ogni suo bianco
la cattedrale, le case
ma ti parlano
una lingua vuota.
Dalla terra che perde
gli alberi e i figli
è caduta la voce
dei vecchi, dei miracoli.
Nel cammino spogliato di mistero
il vento non porta racconti
siamo creature ridotte
siamo sacrificio e pena
*
Sei rimasto come un’ombra
negli angoli più segreti
dove insiste la polvere
che non si vede.
Cielo di novembre
che assedia gli occhi
con un silenzio
che non è neve
*
Puoi anche non credere
all’istinto feroce della dolcezza
che trema nel bacio che non dai
e mordere, piuttosto, come i cani rinnegati
l’assenza che lusinga la fortezza nella testa.
Vedi, anche i totani agguerriti
Sentono la luce della luna
e vanno a morire
sulle barche silenziose della notte
*
Sarà ancora il rivolo marino
che accende azzurri i confini
e una fede
così attaccata alla vita e alla terra
la terra che porta tutto il sangue
come un’eco cavernosa e antica.
Sarà ancora scintilla unica
di un incanto enorme
anche quando cadranno le ossa nel buio
spoglie di un luminoso fiato