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Una drammaturgia della lirica. I Lirici greci di Roberto Mussapi

di Rossella Pretto

Roberto Mussapi, Lirici Greci, Ponte alle Grazie, 2021

Roberto Mussapi è un poeta che ha molto tradotto. L’ha fatto e continua a farlo. Si fa carico delle voci che bisbigliano sulla tela di fondo della notte e concede loro il primo piano, nuovi, solari costumi di scena. Tradurre. Arduo e ineguagliabile mestiere. Così tanto da dire e il più è stato detto.

Andrò un po’ a zonzo, dunque, volgendo il mio passo casualmente oppure al seguito di qualche antico richiamo. Volgendo il passo (e la mente), quindi, al ritmo della lingua che chiede di trasmettersi e tramandarsi tamburando il suolo. Una vibrazione come un ponte che colmi la distanza tra una lingua e l’altra, tra il passato e il presente, talvolta, perché la traduzione inerisce a entrambe le dimensioni, quella spaziale e la temporale, determinando un punto, un incrocio di coordinate: hic et nunc, potremmo dire, consapevoli di esserci solo nel gorgo contemporaneo al nostro accadere. Come esperiamo in teatro, dove ci ritroviamo e riscopriamo viventi grazie a una miccia esterna che fa detonare l’intima epifania da un palco e da un dislocamento. Sto andando un po’ troppo a zonzo, forse. Ma quello a cui volevo giungere è un luogo fisico, quale quello teatrale, dove la voce si denuncia e si denuda, un luogo che si presta a divenire contemporaneità di traduzione. Raboni, che ha tradotto Baudelaire per una vita e ha poi avuto modo di ragionare su tale lavoro a più riprese, si aggrappa al concetto di sopravvivenza elaborato da Walter Benjamin e lo trasla su quello di contemporaneità, incrociando il passato di un testo con il presente della sua riproposizione che si fa traduzione, segno o nuova esecuzione, direbbe Javier Marias (direbbe o l’ha detto in un discorso del 1997). Parlo ora di Marias dal momento che lo scrittore, da me molto amato, avvicina il concetto di traduzione a quello di partitura musicale – e io sono cresciuta sentendo che «il ritmo andava sostenuto ad ogni costo». Marias afferma dunque che il testo tradotto continua a essere sé stesso e a essere compreso nella corsa dei secoli, pur nella differenza e nella sfumatura della versione, proprio come una partitura musicale; e continua: «la partitura non cambia, ma suona in modo differente ogni volta che la si interpreta, e in realtà si può dubitare della sua esistenza solo se non viene interpretata, se non ha luogo, se non succede». Si tratta quindi di porsi il problema dell’esistenza in base al concetto di interpretazione e, perché no, di performance. Tutti temi cari al teatro, dove l’accadimento è attuale per necessità e dove parole e corpi compongono la storia, il suo tessuto. Inseparabilmente. Ed eccomi allora a Roberto Mussapi, eccolo lui, intento a stendere il copione o il canovaccio dei suoi Lirici, includendo non a caso anche parti dei Tragici. Questo libro (Lirici Greci, Ponte alle Grazie, 2021, pp. 224, euro 16) ha dunque un suo intento drammatico e drammaturgico. È una poesia «che nasce dalla voce e per la voce», afferma Mussapi, che, uomo di teatro, si riconosce nei lirici greci «drammatici e recitanti un po’ come lo sarebbero stati, duemila anni dopo, gli elisabettiani». Non potrò esimermi dal citare l’altro mio amato, il grande Bardo, cioè Shakespeare. E dovrò citare anche Eliot, così en passant, lui poeta che ha scritto per il teatro e ha poi incluso i Cori di The Rock tra i suoi versi, per dirne una. Ma torniamo al nostro Mussapi. La memoria, dice il poeta, «fusa con la compassione è l’essenza agonista della poesia», è il nutrimento che le permette di non soccombere, neanche al tempo – ce lo ricorda appunto Shakespeare nei suoi Sonetti: attraverso la poesia si raggiungono (o meglio, si sfiorano) amore e immortalità. «Ma infuria pure, vecchio Tempo», declama Shakespeare, poiché sa che quell’amore vivrà sempre nelle rime e negli occhi degli amanti e sulla bocca degli uomini. In eterna giovinezza. Se si è sufficientemente bravi, ovvio, perché bisogna maneggiare una materia impalpabile come la memoria, come la poesia che da emozione deve farsi segno e da segno di nuovo emozione. Essere contemporanei significa anche avere dimestichezza con tempi altri e passate storie che si rinnovano sugli assi cartesiani. In quel punto di contatto, allora, attraverso la memoria, si manifesteranno il klèos e la gloria. Si rivedrà l’amore. E l’amore, in questa antologia mussapiana, è già straziato e fonte di tormento, così come, ancora una volta, ci aveva mostrato il Bardo inglese nei suoi Sonetti. E lussurioso. Vediamo in che termini Shakespeare tratteggia la lussuria: «pazza nella caccia, come nel possesso; / cercando di avere, avendo e avendo avuto, estrema; / una beatitudine nell’atto, e, compiutolo, una pena; / prima, una gioia sperata; dopo, un sogno». La lussuria non è l’amore, ma può essere un suo attributo. Ed è parte di una caccia. Perché «chi ora ti fugge ti inseguirà domani, / chi non accetta doni ti coprirà di doni, / se adesso non ti ama, credi, domani / ti amerà anche contro il suo volere», così Mussapi traduce Saffo, e continua: «vieni da me anche ora, / liberami dall’angoscia amorosa, / fa’ tutto quello che il mio cuore vuole / rispondi alla mia voglia, / combatti al mio fianco la battaglia». C’è una resa (non solo testuale), una capitolazione durante la battaglia. Amore arciere che atterrisci con le frecce e fai smorire la voce, tremante tutto il corpo, «sono più verde dell’erba, / forse muoio», scrive ancora Saffo (e Mussapi traduce). L’antologia non è solo questo, ma si apre e si chiude sull’amore, prima con Saffo e poi con la nutrice dell’Ippolito euripideo. Nel mezzo c’è la vecchiaia di Mimnermo, ci sono lo scacco e l’ebbrezza di Anacreonte, e poi Archiloco, Ibico e Alcmane, ci sono la vita breve e tempestosa di Alceo, la dimensione della pena umana di Simonide di Ceo, ci sono Pindaro, Erinna e altri. E poi Eschilo e Sofocle. C’è, insomma, tutto lo spettro dei crucci umani, unitamente alla gioia di essere creature, l’orgoglio dell’evoluzione e dell’emersione, come nello splendido coro dell’Antigone che magnifica le sorti umane “e progressive” lanciando però un monito, perché, dice, «se [l’uomo] cederà alla superbia sostituendosi a Dio, / si dannerà alla rovina, sarà solo: / sconosciuto alla mia casa e al mio pensiero». Anche Seamus Heaney ha tradotto l’Antigone sofoclea e ha tratto da questo coro il componimento intitolato Sophoclean, apparso sul New Yorker nel 2003. E da un altro testo heaneiano, poi, The cure at Troy (la sua traduzione del Filottete sofocleo), i Presidenti americani continuano a trarre citazioni per i loro discorsi tentando di far «rimare speranza e storia». La traduzione rinnova ed è la continuazione della politica con altri mezzi, potrei dire rischiando di farmi insultare. Ritorniamo piuttosto a Mussapi e all’amore - non un campo meno minato, a dire la verità - ma proseguendo, in quest’ultima piroetta, avremo una sorpresa. E lo stupore si genera dal fatto che il nostro poeta-traduttore, esperto accordatore delle voci degli amanti, sente però il bisogno di una ricomposizione graziante tramite cui sia possibile raggiungere la pacificazione. Non a caso, credo, conclude la sua cavalcata lirica con le parole della nutrice di Ippolito che, in linea con la sua estrazione, distilla il succo della saggezza popolare e chiude il suo discorso dicendo: «[s]e questo amore è una malattia / sia il tuo contagio e la tua cura insieme». Scegliendo questa chiusa, Mussapi non si piega al daimon, non gli concede vita facile. O meglio, lo fa divampare, si lascia ustionare e poi lo prende per mano fino a costringerlo a farsi benigno, spossato dopo l’erotica lotta. Tra parentesi, ricordo che questa è anche la conclusione di The cure at Troy di Heaney, con quel piede in cancrena di Filottete che simbolizza la cancrena della decennale guerra, un piede terribile che deve e può essere curato, cosa possibile solo quando l’eroe comprende lo statuto ambiguo e bicefalo delle cose del mondo: l’isola di Lemno, allora, diventa chiglia e zavorra e la sospirata onda di marea della giustizia può finalmente risollevarsi.

Ne abbiamo bisogno, probabilmente. Anche solo del miraggio. La strategia della tensione di questi ultimi anni ci ha stritolati. Serve un po’ di quiete. Un medicamento. Saremo pronti a ricominciare, a tornare di nuovo verdi, ma ora si stemperi l’ansia, la passione scalpitante. Ci diano il balsamo dell’istante, uno solo, ma che non infuri.

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