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Un pensiero per Lorenzo Calogero

di Elena Verzì

Sessant’anni senza Lorenzo Calogero.
Sessant’anni da quando il poeta e medico proveniente da Melicuccà, paesino della provincia di Reggio Calabria, scomparve in circostanze misteriose tra il 22 e il 25 marzo 1961.
Faticava a farsi pubblicare dagli editori, la sua poesia rimaneva all’ombra di uno di quegli alberi che ristorano dal sole e dalla pioggia mentre i suoi versi combattevano battaglie complicate da spettri e fobie.

La poesia di Calogero presenta linee autentiche che raffigurano immagini e segni guardati dagli occhi del risveglio. Egli rappresenta la parte nascosta che ciascun poeta possiede, ovvero la speranza di non essere dimenticati, la speranza di lasciare una parte di sé viva anche dopo la morte.
Il biglietto firmato, rinvenuto accanto al corpo esanime, diceva: “Vi prego di non essere seppellito vivo. L. C.” Un messaggio lasciato ai famigliari, ma che per noi posteri amanti della poesia non riguarda fisicamente il cuore pulsante nel corpo del poeta, ma i battiti vivi della sua poesia. Il messaggio arriva forte: non far sì che questi versi siano cancellati dalla storia, ma illuminati grazie alle nostre letture.

I versi di Calogero sono manifestazione di una esistenza fatta di riservatezza e solitudine. Riferimento costante nella sua poesia è la figura femminile, ne sono esempi le poesie: “Vergini di fumo in sonno”, “Vergini in puro sonno”, “Se leggera ti voglio”, “Come in dittici” etc. dove la donna appare idea, immagine fisica fino alle lacrime, e trasmuta da sembianze fanciullesche e angeliche a quelle di una larva che richiama la morte. In alcuni passi arriva al punto di immedesimarsi nella persona altra ed essere lui stesso il tu interlocutore. Il linguaggio dei suoi versi è denso semanticamente, c’è coscienza di una natura fredda che non gli dà scampo, e porta dentro la ferita di un desiderio mai nato, come dice in una poesia: “desiderio chiuso in un deserto di vetro”. Vi è un’identità quasi tra l’io e quell’immagine fantasma di cui parla e che altro non è se non la somma di se stesso. Il canzoniere calogeriano si sviluppa come sequenze oniriche nelle quali il poeta, visionario e vigile, protegge la ferita e il disagio della malattia.

Nel sogno appare ricorrente l’immagine del suono con un aspetto fisico reale, concreto che si identifica in maniera duplice nel rumore e nell’assenza di rumore, quasi come se il suono fosse vuoto. Al tempo stesso però è presente una voce “cupa di cenere” di cui Calogero vuole appropriarsi e farne carne, come a voler rendere solida la voce poetica che mette in scena nelle sue poesie.
Vi prego di non essere seppellito vivo” lo dice ancor oggi alla nostra memoria, affinché la sua poesia viva.

Se leggera ti voglio

Se leggera ti voglio non è mattina
che non si vede, non è sanguinante
col passo il tuo labbro
che si avvicina. Donde provenga
parvenza non vera dell’alba
gelida non so. Tuo è il suo orgoglio,
inquinato ricordo che più non si scorge
o l’esilio nel suo passato o uno spiraglio
nel vuoto, perché se non più si ama
e si spegne lentamente un uomo
non più io ti domando. A mezzanotte
livido è il tuo fianco. Sale a le stormenti
fronde di un albero o è rigido.
Serena e pura una gioia
si spande al tuo labbro.
Fredda e sicura l’imitazione
dell’immagine di lei, vivida
dentro un cristallo, nelle pieghe
della sua struttura una lacrima rade.

Come in dittici

Quando da l’albatro strano ad una lucida
scintilla dei crepuscoli eri un’idea
non più vicina, non più t’ascolto.
Una fuga di uccelli eri chiara nel folto,
d’alberi una china, un esiguo
fiorito stormo di occhi nel volto.
Fievole una gioia lentamente inclina
al fiore del limone e pigramente
a una favola.

So. Non altro eri tu chiamata
che una corolla negli orti del tempo
nel tempo del tuo riposo. La fuggevole
aria abbraccia sul labbro tuo mutevole
lo spazio che non ebbe mai un colore
o lo distingue da esso o è lontano
da te o è curioso.
Guardi
la serena essenza senza fine
o è rotta la voce cupa del tuo tempo,
a sommo rivolta, esatta,
ratta veloce nel senso del tuo sonno.

Tacita una salsedine si risveglia
o esala una marea. Declina
una notte mite fredda
lucida e la tramontana poi.
Se le monotone cose vuoi
la morte come una sera negli occhi
ti è sorella carnosa e vicina.
Altri tempi
non puoi implorare.
Come in dittici
antichi autentici disgiunge
la tua gioia il calore
dell’ultima brina.

Se per poco odo

Se per poco odo e tolgo a la voce
non mi resta che un’immagine
per finire. Fu scaturigine
quieta la tua vita come acqua,
così partecipe esigua la spiegazione.
Il taciturno lento svolgersi delle stagioni
ti si addice. Non so in quale artefatto
rarefatto moto dei monti o pressoché simile
umile era fatto alle origini. Pure potevano
svilupparsi il silenzio, una migrazione
gelida, un puro spazio
in pure pause di ombre.
Uguale lievita e riecheggia la brezza
e risponde. Il mattino sul colle inclemente
era la causa dei sogni.

Vergini in puro sonno

Vergini in puro sonno ali oscillano.
Questo è lo schermo della luna.
L’esile lume giuoca sul tuo collo
come un’onda danzante e riverbera i disegni,
i segreti delle stagioni sui vapori
delle stelle come un’esigua acqua
che lascia schiuma.

Ritorna il bivacco
su la dardeggiante cruna
e la marea come un’alta cima
asciuga lo scirocco
sopra una ventata calda
di cenere bionda e bruna.

Si accende il disco
della candida faccia a raggi
della bianca implorante luna
ai passi dello sperduto viandante
che ha smarrito la strada.

Ali vergini di puro fumo in sonno
su lande solitarie oscillano, puri fiocchi
aperti ai tuoi sogni divengono.

Photo credit: www.lorenzocalogero.it

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