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Tiziano Broggiato, Novilunio, LietoColle

di Edoardo Sant’Elia

   “Tutte le lettere sono state spedite”, secondo Tiziano Broggiato. Che aggiunge: “Scie di traccianti ne attentano il sorvolo. / Di quelle disperse o sopravvissute / mai conosceremo il numero preciso”. Nessun pessimismo, a mio parere, in questi versi: semmai un riconoscere la parte del caso, un prendere atto – con smagata ironia? – di quegli eventi che inevitabilmente complicano gli umani rapporti.

   Vive di interrogazioni non gratuite né leziose, Novilunio. Il poeta si rivolge a chiunque: ai luoghi che attraversa, alle città dove sosta, agli oggetti di cui si serve; si rivolge anche a sé stesso, misurando la propria posizione nello spazio e il proprio stato d’animo in rapporto a ciò che lo circonda: “Sto qui, seduto / a controllare la notte, / come un guardiano il suo museo”. Domande che si sciolgono nella realtà, che si frantumano nei suoi rivoli, che non pretendono risposte definitive; che nelle descrizioni trovano un punto figurativo/simbolico d’approdo, “Nel semibuio dell’alba, la città / è un grosso animale acquattato / in attesa di prede”, oppure una dichiarata, antiretorica repulsa: “Mai amato la primavera / per via dei precoci risvegli, / della sua luce eccessiva / e per il frastuono provocato / dal ritorno degli uccelli”.

   Altre volte la situazione si rovescia ed è la realtà che sembra interrogare il poeta, insinuandosi nella pagina con calcolata lentezza, verso dopo verso, giungendo solo in ultimo a manifestarsi appieno, come nella poesia dedicata a quella luce che sosta a lungo davanti ad una porta, coglie il poeta alle spalle penetrando da una bassa fessura e finalmente, “… alta / lattiginosa, irridente”, diviene, in tutta la sua arroganza di elemento primigenio, la Luce. In questo libro gli elementi naturali sono più volte protagonisti, ricorrono e si rincorrono in diversa misura, insistono e persistono mutando pelle a seconda delle situazioni. Così la pioggia si rivela in un’istantanea che fotografa il balzo necessario a superare un marciapiede per raggiungere il taxi, percuotendo “… col forte battito / dei suoi polpastrelli d’osso”, per poi in primavera (la già detestata primavera) proporsi con un suo “picchiettare conciliante”; mentre il vento, che effettua “radenti incursioni”, successivamente giunge ad esprimersi attraverso un “eloquio gutturale”.

   Ed anche i sentimenti, come gli elementi, sono incrostati nel reale. La felicità si avverte allo stesso modo “nel silenzio gonfio di una campagna / o dentro la cornice d’ottone di uno / spioncino”; e quanto alla crudeltà, sfuma nella memoria, diviene perplessa “di fronte a quella pena avvolta / in una coperta a quadri, scozzese”. Si tratta comunque di un realismo filtrato continuamente dallo sguardo, uno sguardo che ingigantisce i dettagli o li fa poco a poco scivolare in una forma decantata di oblio. In fondo i luoghi, anche i più concreti, anche i più riconoscibili, anche quelli esplicitamente menzionati, Praga, la Sicilia, Casablanca, vivono una vita seconda, più intrigante della prima, perché avvolti nella nebbia del ricordo, perché appaiono a tratti, per scorci, per sintesi estrema; e perché, alla fine, vengono svelati solo in parte, restando sostanzialmente intatti.

   Emerge allora dalle pieghe del reale un ‘non detto’ che Broggiato lascia lì, come un reperto del reale stesso, un bagaglio dimenticato che può anche rimanere chiuso. O forse si tratta solo di un corteo di ombre “… che non sai se ti stanno sfuggendo o se, / fedeli, ti precedono soltanto”.

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