di Giorgia Esposito
Ѐ una figura presente e al contempo defilata quella che anima le pagine di “Sponde” (Arcipelago itaca Edizioni 2019), titolo intrinsecamente polisemico e dichiarativo: esiste, avvisa l’autore, un punto da cui osservare e un altro cui tendere – un approdo possibile. Nel segno della continuità («[…] sai, tentiamo il bordo delle cose / aspettando il sospiro dell’alba», si legge nella raccolta d’esordio “La perizia della goccia”, affinità elettive, edizioni ae), si coglie, con accenti più maturi e consapevoli, il tentativo di indicare il percorso mobile dell’esperienza (Erlebnis) attraverso una meticolosa esplorazione del quotidiano. L’immagine odeporica si coniuga con la scelta del margine, inteso non come una «questione di tecnica, ma di visione» (Proust). Da una prospettiva discreta e singolare (Canaletti infatti non rinuncia, per dirla con Fortini, alla «funzione umana che dice io in poesia») si può osservare la molteplicità irriducibile delle cose, ma senza cedere, per questo, all’anomia, alla disgregazione formale. L’uso dell’ipermetro, che permette l’estensione e la concentrazione del dettato, ben si addice al procedere razionale e analitico dell’autore, il quale si mostra sempre vigile e attento alla registrazione di oggetti, corpi, dati di realtà, seppure contingenti o episodici:
Ora che ti sei portata qualche centimetro più avanti
dimmi ciò che vedi dalla partenza
dal porto di Napoli non proprio in orario.
Dove vai, poi, oltre il ponte l’inferriata è scivolosa.
Tira la morbidezza della pioggia
cova l’acqua nel mare.
Qualcuno sospetta
che ci siano ancora trenta metri
prima di uscire a largo,
ma nessuno vede più, da un po’,
ciò che si lascia dietro la città
il giallo a mezz’aria sopra i cantieri fermi.
La volontà di esattezza, sua cifra caratteristica, si accompagna ad un linguaggio piano, vivido e descrittivo che non di rado cede il passo al narrato, come si evince dalla presenza di coordinate cronotopiche. Quest’operazione, solo apparentemente fredda e raziocinante, è dichiarata sin dall’esergo: «This poem is concerned with language on a very plain level. […]» ma “non lasciatevi ingannare”, sembra dire più avanti John Ashbery. Nello sforzo di veicolare valori conoscitivi lontani da ogni consolazione metafisica, in quanto l’altrove cui pure anela questa poesia «non è mai un altrove mistico» (Toni Negri), Canaletti decide di condensare il suo discorso nella sfera del pensabile:
[…]
Ma resto razionale, i fotoni in tre fastelli
e il cane che gioca si combinano tra loro
sillabe di un itinerario.
Si arriva dove tutti abbandonano
un ricordo e non ti confonde più la tua concreta fine.
Al contrario, la sfera dell’insondabile si manifesta attraverso la ripresa del (o il cedimento al) grande simbolo otto-novecentesco dell’abisso, che è paura dell’insensato e fondo buio della memoria, ma anche dichiarazione di intenti (vv. 1 e 2):
Non salire. Non lasciarti intrappolare sulla vetta.
Tutto ha ricchezza dal basso.
E tu raggiungi, sempre più lontano, l’abisso…
E una volta lì riparti, memoria e cammino –
tu che sei i piedi, la stessa strada,
la traiettoria che sfinisce le foglie.
È come un indizio di tempo,
l’inizio di chi sa quanto dice e che, quando dice,
sa che ha già perso, che nulla ha più significato.
*
La luce sulla retina non secca lo sguardo
arriva di taglio, rinfresca, ti apre più ai lati la vista
rintracci l’abisso, a volte, la morte soltanto.
[…]
Evitando atteggiamenti di «scetticismo radicale» o, al contrario, di «credulità», ed escludendo con fermezza ogni possibilità di un attracco trascendente, il poeta può così concentrarsi sugli aspetti davvero rilevanti e luminosi dell’esistenza. Pienamente intercalate nel grande andirivieni dei fatti e degli incontri, si stagliano, una dietro l’altra, numerose figure umane, contemplate con tenerezza («Tu ora dormi: e che dettato il tuo profilo. / Che grammatica i capelli che impercettibilmente muovi») o osservate con crudezza ed ironico distacco.
Dal punto di vista retorico colpisce l’uso sapiente delle figure di parola e di ripetizione (diafore, poliptoti, riprese anaforiche), che assicurano al discorso una certa compattezza formale e concettuale. Del resto il marcato carattere iterativo garantisce «l’organizzazione del testo poetico, il suo essere strutturato, […] il costante e necessario ritorno del noto di elementi equivalenti […] che ci ricorda l’accostamento freudiano tra la coazione a ripetere e la natura dell’arte, e il piacere derivante dal riconoscimento del noto nell’ignoto» (Lepschy). Se la forma è l’etica dell’arte, è in quella che va individuato il senso primo della ricerca; la necessità di concettualizzare l’esperienza, disciplinandola. E Canaletti, con questa silloge giovane e lucente, ci indica la sua «foce che infiamma dai fiumi, che annega».
Post-Scriptum di Davide Rondoni
Mi riportano post facebookiani del buon Canaletti che, evidentemente senza averlo letto, critica un mio recente libro sull’infinito di Leopardi ascrivendomi cose che nel libro non ci sono e uscendosene con un “si parla per parlare” rivolto al mio lavoro come se fossero fanfaronate. Se passasse meno tempo su fb come una qualsiasi vanitosa attricetta e leggesse più accuratamente sarebbe meglio per tutti, soprattutto per lui. Glielo auguro.
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Questo articolo vale tutto per il post scriptum di Rondoni alla fine. Canaletti poeta nullo e saccente (ma ignorante) insopportabile.
Gareggia con te, insomma.